Giuseppe Conte si rivolge agli italiani, per parlare in realtà a solo 110 mila attivisti. Nelle loro mani è racchiuso il destino del governo giallorosso. Oggi alle 18 tutto potrebbe precipitare se la maggioranza dei militanti del M5S dovesse piantare due lettere, No, sul cammino che sta portando all’alleanza impensabile fino a qualche giorno fa tra i grillini e il Pd.
Il presidente del Consiglio incaricato, avvocato e docente universitario, con passione per la filosofia, non avrebbe mai immaginato di dover registrare un video-appello per sminare la possibile catastrofe derivante da una piattaforma intitolata a Jean Jacques Rousseau, ideatore del contratto sociale come formula di convivenza tra gli uomini.
Qui invece non c’è alcun contratto: non c’è quello ha legato fragilmente la Lega e il M5S per 14 mesi. In teoria c’è un programma, condiviso, pieno di «consonanze» come le chiama Conte, tra Pd e 5 Stelle, che però non trova traccia nel quesito messo in votazione sul sito gestito dalla Casaleggio Assoociati.
Già poco dopo le 23 di domenica sera il terrore corre sul filo dei telefoni, tra i grillini, nel Pd, a Palazzo Chigi. La formula scelta – volete un nuovo governo, assieme al Pd, guidato da Giuseppe Conte – stringata e gelida come il post di presentazione sul Blog delle Stelle, tradisce tutta la mancanza di entusiasmo dei vertici per un patto con chi fino all’altro ieri era considerato il diavolo. I parlamentari entrano nel panico. Il sospetto punta verso lo staff di Luigi Di Maio, riluttante sin dall’inizio all’ipotesi di finire con i dem. Il bersaglio sono due collaboratori del leader: Pietro Dettori e Max Bugani. Siedono a lato di Davide Casaleggio nell’Associazione Rousseau e sono a libro paga nella squadra di Di Maio a Palazzo Chigi. Quella che evaporerà dopo aver rinunciato al posto di vicepremier. Bugani e Dettori, assieme a Casaleggio Jr e Alessandro Di Battista, sono i più scettici sull’alleanza con i democratici, quelli che più spingono verso il voto. Soprattutto Dettori è sospettato di aver deciso la domanda. Sul fronte opposto, a tifare per il Sì c’è Beppe Grillo.
Il confronto con la votazione del maggio 2018 sul contratto con Matteo Salvini, agli occhi di deputati e senatori che compulsano furiosi su WhtassApp, dice tutto. Un anno fa un video sorridente di Di Maio dava una chiara indicazione di preferenza, senza mai citare la Lega. In questa occasione invece il Pd – «il partito di Biabbiano» con cui il capo politico a fine luglio diceva che mai si sarebbe alleato – è lì in mezzo, impossibile da scansare. Allo stesso modo in tanti rievocano lo stratagemma con cui la Casaleggio e i vertici del M5S costruirono il quesito per veicolare il voto sul caso Diciotti, quando i militanti furono chiamati a decidere le sorti del ministro dell’Interno Salvini. E quando di fatto bisognava votare No per dire di Sì, e viceversa.
Ma è stato ieri mattina che nel M5S e nello staff di Conte è diventato chiaro quanto fosse probabile il rischio bocciatura. I commenti sul blog sono tutti orientati contro il Pd e l’ipotesi di fare un governo assieme. La comunicazione dà l’ok ai parlamentari per esprimersi pubblicamente e dare una precisa idnicazione di voto. In massa convergono sul sì. Anche tra i più vicini a Di Maio, come Manlio Di Stefano, che fa un elenco di tutte le sfide ancora da affrontare (ambiente, economia circolare) che verrebbero perse se il governo non dovesse nascere. Molti suoi colleghi invece sono ancora più espliciti e senza inoltrarsi in troppe riflessioni lanciano il loro endorsement con banner da tifoseria e con video a sostegno del Conte Bis. Solo Gianluigi Paragone, senatore-giornalista, cita Vasco Rossi e conferma la linea: «C’è chi dice no».
All’ora di pranzo circola già la voce di un video di Di Maio, per promuovere il voto favorevole. Non sarà così. Qualche ora dopo è il premier, a sorpresa, a prendere la parola in una diretta Facebook e a spiegare quali motivi dovrebbero spingere i sostenitori del M5S, sfamati per anni dal blog e dai loro parlamentari contro il Pd, a stringere un accordo. Conte ricorda l’impegno del Movimento, nel caso non avesse raggiunto il 51%, ad allearsi con chiunque facesse valere il programma. Una mossa irrituale per un premier incaricato: una registrazione dalle stanze di Chigi che di fatto accredita la supremazia della democrazia dei clic del M5S. E che per i dem certifica la sua leadership tra i grillini, contro la tesi di essere super partes.
Pochi minuti dopo tocca a Di Maio. Il video in cui annuncia di aver rinunciato alla vicepremiership è la conferma della sua renitenza: «Non esiste voto giusto o sbagliato». È arrabbiato e stanco. Per l’ennesima volta lui, che per ben due volte con la Lega ha sfiorato il sogno di essere premier, deve fare un sacrificio, sotterrato dai post e dalle lettere di Grillo che lo sovrasta e si riprende l’anima del M5S. Il garante e il leader si sentono al mattino. La lettera al Fatto, in cui il comico fa uno sfottò sui punti programmatici grillini paragonandoli a quelli della Standa – raddoppiati da dieci a venti in poche ore – lo ha mandato su tutte le furie. «Non è giusto Beppe, hai sbagliato, così mi fai solo del male…».