L’impresa riformista. Una parola dell’economia. E un’altra tipica del linguaggio politico. Perché metterle insieme? E cos’è mai un’impresa riformista?
Viviamo tempi di passioni tristi e pensieri mediocri, di profondi disagi sociali cui troppo a lungo le classi dirigenti hanno dato scarso ascolto, di estremismi verbali frutto di rancori e invidie sociali. Di ostilità per la scienza e per l’attenzione ai numeri e ai fatti e di fascino fin troppo diffuso per fake news e «pensiero magico» incurante di verifiche con la realtà e semmai seducente su post-verità desiderate. E, ancora, di corrive promesse di politici cosiddetti «nuovi» per improbabili scorciatoie di fronte a problemi difficili, complessi. Di una politica lontana dall’«etica della responsabilità» e incline invece alla propaganda e alla retorica della coppia dialettica «amico-nemico». Ma anche di un diffuso bisogno sociale, specie tra le nuove generazioni, di consapevolezza, partecipazione, impegno civile. E di una mobilitazione ampia, partita tra l’estate e l’inverno del 2018, di vari settori dei ceti produttivi del Nord dell’Italia (imprese, commercio, professioni, persone abituate a fare bene il loro mestiere) ostili alle derive dei «No» (alle infrastrutture, agli investimenti, all’Europa, all’industria innovativa, all’apertura domenicale dei negozi ecc.) e favorevoli invece a tenere il Paese dentro l’orizzonte della modernità e dello sviluppo: il cosiddetto «partito del Pil», il prodotto interno lordo, il partito cioè dell’impegno economico e sociale.
(…) I nostri sono tempi confusi e controversi, insomma. E l’impresa può essere protagonista di una nuova stagione di cambiamenti, di rinnovamenti, di una «economia giusta», per riprendere la lezione di Papa Francesco e dare ascolto alle analisi e ai giudizi che vengono dalla migliore letteratura sociale ed economica. (…) Di fronte alle sfide di una così tagliente contemporaneità che riguardano le tecnologie di produzione, distribuzione e consumo nel nuovo mondo dell’Internet of Things ma anche il lavoro, il denaro, l’ambiente, gli scambi e i commerci mondiali, le relazioni industriali e sociali, proprio l’impresa, soprattutto nella dimensione di impresa industriale, di «fabbrica», può rinnovare profondamente la sua ragion d’essere, la sua funzione, la sua natura con radicale senso di responsabilità e visione lungimirante sui cambiamenti. Un’impresa che sa guardare a una piccola parola latina, cum. Quel cum che sta alla base di un’idea di impresa come «comunità», luogo d’incontro, conflitto e sintesi di interessi diversi (che riguardano l’imprenditore, i finanziatori, i manager, i tecnici, l’insieme dei dipendenti) ma poi convergenti.
Ma anche di impresa «competitiva» (cum e petere, muoversi verso obiettivi comuni). O di impresa «coesiva», caratterizzata da scelte che riguardano la qualità dei posti di lavoro, la sicurezza dei processi produttivi, l’inclusione, gli accordi per il welfare aziendale, nella concretezza della «fabbrica bella» e nella prospettiva di una vera e propria «metamorfosi» secondo i valori smart dell’economia «civile» e «circolare» e della sostenibilità ambientale e sociale. Un’impresa in cui, per reggere e superare la concorrenza, sono necessarie scelte anche molto discusse ma alla fine condivise.
(…) L’impresa come luogo denso di valori, dunque. Un’impresa attiva e progressiva. Numericamente minoritaria, se si guarda al grande mare delle imprese, affollato da esperienze diverse, da casi importanti d’innovazione, ma anche da chiusure, familismi, voglia di sostegno e protezione. Ma culturalmente ed economicamente egemone. Ecco la frase chiave: impresa riformista egemone, in grado di indicare una via positiva di sviluppo economico e sociale. Un’impresa forte anche di virtù civili.
(…) L’indicazione è quella di una scelta di cultura e di pratica d’impresa che va oltre l’orizzonte del pur indispensabile fare profitti e lega al «valore per gli azionisti» (condizione necessaria ma non sufficiente di crescita) l’impegno su un sistema di «valori» d’innovazione positiva, attenzione ambientale, solidarietà, responsabilità sociale.
(…) L’impresa è quindi innovazione, sintesi via via originale tra le sollecitazioni dell’attività creativa e l’attitudine seriale dei processi produttivi già sperimentati con successo, tra il pensiero eretico che anticipa il cambiamento (di un prodotto, un processo, una scelta dei materiali, una ricerca, una strategia di marketing) e la resistenza della maggioranza per restare sulle strade già note. Tocca a chi guida trovare una composizione nella dialettica dei contrasti e andare avanti.
L’impresa è competizione basata su competenze e riconoscimento dei meriti. Non un paradiso del meglio delle relazioni, naturalmente (ci sono, spesso, anche lì clientele, parentele, familismi, giochi di potere cortigiani). Ma un luogo in cui, se e quando la competizione è severa, le scelte sulle persone da fare valere e fare crescere seguono in molti casi ragioni meritocratiche. Una cultura che dall’impresa può provare a contagiare il più possibile il resto del Paese.
Direttore della Fondazione Pirelli e vicepresidente di Assolombarda