«La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia». Così parlò Adriano Olivetti, uno dei più illuminati capitani d’industria del nostro Paese, che con asili nido per figli dei dipendenti, assicurazioni sanitarie e alloggi per lavoratori, ha sancito settanta anni fa una nuova dimensione nella relazione tra impresa e mercato. Ma quando anche Larry Fink, cofondatore e ceo di BlackRock, colosso americano dell’asset management che gestisce oltre 6 mila miliardi di dollari, nella sua lettera annuale agli amministratori delegati dello scorso gennaio scrive che «i ceo devono far maturare alla propria impresa un purpose (…) che vada oltre il profitto» sembra che la responsabilità sociale d’impresa, moda manageriale prima, funzione poco ascoltata in azienda poi, si stia trasformando da Cenerentola a principessa.
Al livello superiore
Il purpose (la finalità, lo scopo: la funzione, ndr) seppur intrecciato in qualche modo al profitto, porta l’impresa a un coinvolgimento formale oltreché sostanziale nel sociale. Non rappresenta la mission e la vision aziendale, che i manager hanno imparato a inserire nel loro piano strategico, in quanto mission e vision impostano l’obiettivo di lungo termine strumentale al conseguimento del profitto. Il purpose cambia il campo di gioco, dando per scontato il profitto, senza il quale l’azienda non funziona e non sopravvive, ma specificando che esiste un altro livello per dirla nel linguaggio dei videogame tanto caro alla generazione Z, particolarmente attenta ad aspetti sociali, ambientali ed istituzionali, completamente dimenticati dalle generazioni che la hanno preceduta. Cambiamento climatico, disuguaglianze sociali prodotte dalla polarizzazione dei redditi, diversità e inclusione sociale. E la lista potrebbe continuare. In sostanza l’impresa deve fare del bene oltre a fare del business. L’impresa è parte fondante della società e ad essa deve contribuire.
Ma queste tematiche non sono problemi della politica? Soprattutto: perché i manager dovrebbero occuparsene, se i mercati finanziari che li giudicano sono ossessionati dal profitto? Per almeno tre ragioni sempre più evidenti.
Superaziende…
Una prima è proprio di natura economica. Le grandi multinazionali sono diventate troppo importanti dal punto di vista delle risorse rispetto al contesto istituzionale che le circonda. I giganti del web, i cosiddetti Faamg (Facebook, Amazon, Apple, Microsoft, Google), cumulano un capitale e una liquidità che fa impallidire il Pil di molti paesi. Seppur snodo cruciale per restituire al territorio, le fondazioni bancarie saranno in futuro sempre meno sufficienti a stimolare risorse fondamentali a livello sociale. Ben vengano quindi i Cucinelli, i Dallara e i tanti imprenditori medio-piccoli che restituiscono al loro territorio un valore di risorse che difficilmente anche la politica, sempre più miope per fini elettorali, riesce a conferire.
Una seconda ragione è di natura sociale e si riconduce alla crescente importanza di tutti gli stakeholder (i portatori di interesse verso l’azienda) rispetto ai soli azionisti, i fan del profitto e del dividendo. Poco male quindi se Gillette prende sberle dagli haters del web perché reinterpreta il significato del «meglio di un uomo» con una campagna coerente con l’evoluzione dei consumi in un mondo post #metoo. E molto bene se il marchio più amato negli ultimi tre mesi del 2018, Gucci, di fronte alle polemiche per il recente lancio di un prodotto, introduce immediatamente un programma globale per promuovere inclusione e soprattutto introduce nuovi ruoli organizzativi destinati a stimolare la diversity e a vigilare su di essa. L’attenzione sociale diventa un legame sociale imbattibile rispetto ad altri incentivi per molti dipendenti.
…e super Ceo
Ma vi è anche una terza dimensione, che sta emergendo in questi anni e che va di pari passo con la perdita di ideologie e l’affaticamento della politica nel conferire messaggi alle proprie audience: la sfida identitaria dei nuovi leader. Un tema prettamente individuale, che non può e non deve essere sottovalutato. In epoca di social, i ceo hanno una visibilità pari a quella delle rockstar e dei grandi calciatori. Sono individualmente responsabili dei valori sociali che trasferiscono e devono essere credibili rispetto ad essi.
Per consolidare il legame tra impresa e società, molto può fare la formazione. Stimolate dai dibattiti tra rettori e dagli stessi editori dei ranking internazionali, università e business school hanno già inserito corsi su Corporate social responsability nei programmi didattici. Ma non basta. Il tema non deve essere settorializzato, deve puntare all’etica del singolo e deve essere stimolato con casi ed esperimenti comportamentali nelle aule. E chissà se scuola e università riusciranno a stare al passo con questo tema fondamentale, che porta al senso civico più profondo e che insegna a vivere la politica come «civil servant» e l’impresa anche come «give back» alla società. Ma una cosa è certa: il futuro dell’impresa è sempre più legato alla società.
Non sappiamo quale fosse il vero «purpose» di Fink nello scrivere la lettera. Una risposta scontata e un po’ malevola è che più di un terzo degli asset che gestisce la sua azienda e gran parte dei prodotti e servizi in mano ai ceo destinatari del suo scritto, hanno a che fare con la Generazione Z. Oppure un semplice tema di marketing per cui condire il profitto con un po’ di bene, male non fa in epoca di guerra alle banche e alla globalizzazione smodata. Ma, vedendo il bicchiere mezzo pieno, è bello pensare che anche il mondo della finanza cominci a considerare l’impresa come parte della società. Sarà certamente contento Adriano, tanto incompreso durante il suo tempo, quanto illuminato precursore di un’idea di impresa che è moderna per il XXI secolo.
L’Economia, 15 marzo 2019