Q ualcosa non funziona nella Fase 2 del governo. Forse già la definizione, Fase 2, nasce sfortunata: da decenni è usata in politica quando di solito si è irrimediabilmente incastrati nei vincoli e nelle difficoltà della Fase 1. Bisogna sperare che non sia così. Anche perché la Fase 1 ha avuto dei meriti che sarebbe grave sciupare. Certo, ci sono stati errori e contraddizioni fin dall’inizio, ma di fronte a un evento eccezionale il governo ha avuto la forza, quando il contagio è esploso in Italia, di imboccare con decisione la via del lockdown quando alcune nazioni, per esempio la Francia, escludevano l’idea e altre, in cima il Regno Unito, si vantavano addirittura di prevedere soluzioni opposte. Quasi tutti, compresi Emmanuel Macron e Boris Johnson, hanno poi dovuto seguire il modello italiano.
L’appello alla responsabilità degli italiani ha funzionato. Non era scontato, anche perché il prezzo del sacrificio e della disciplina imposti al Paese è stato altissimo.
I l governo non può pretendere ora che l’uscita dall’emergenza si ottenga semplicemente continuando ad alzarlo. «Vi imploriamo di stare a casa» era una espressione tollerabile nel pieno della furia del contagio. Il pilastro della Fase 2 non può essere: vi imploriamo ancora di stare a casa, magari un po’ meno.
Non è in discussione la giustificata cautela e non si tratta di fare passi azzardati o scommesse al buio, solo di mettere realmente in campo tutte quelle soluzioni che possono favorire l’entrata in una fase di convivenza con il virus senza che l’unica risposta sia la segregazione a oltranza o la grottesca cernita degli affetti visitabili e di quelli non. Su questo l’Italia, che è stata avanti agli altri nella fase della chiusura, è ora attardata.
La Germania, forte della sua potenza economica, dopo una pausa più breve e contenuta della nostra ha riacceso i motori. La Spagna, non meno colpita dal virus, idem.
Macron ha già dato settimane fa alcune date di riapertura e ha spiegato che da maggio avranno accesso ai tamponi tutti i francesi che ne faranno richiesta.
Magari la Francia sbaglia a riaprire le scuole tra pochi giorni, e gli scienziati che consigliano Giuseppe Conte ne sono convinti, ma gli italiani vorrebbero almeno capire se c’è un piano vero per riportare i nostri studenti in classe anche se il virus non è del tutto sparito, sapere se nella Fase 2 potranno fare il tampone in caso di sintomi, impresa drammaticamente complicata fin qui, e se ci sarà un numero sufficiente di test a garantire che l’app per il tracciamento sia uno strumento utile a prevenire il contagio e non solo l’ennesima cessione di diritti e privacy allo stato d’emergenza.
Ai meno pretenziosi basterebbe capire se avranno l’obbligo di indossare la mascherina e se potranno comprarne le scorte necessarie senza subire il vergognoso salasso di questi giorni.
Su questo il governo è fermo agli annunci. I verbi sono tutti coniugati al futuro, ma è passato un mese e mezzo dal primo lockdown ed era lecito aspettarsi di più e di meglio.
Qui si è innestato per la prima volta un serio problema di comunicazione che ne nasconde però uno tutto politico. Il guaio non sono gli equivoci sui singoli provvedimenti, ci sono stati in continuazione, ma in fondo si sono sempre chiariti per tempo e sono almeno in parte giustificati dalla singolarità della situazione.
Il problema è che la narrazione dell’uomo solo al comando, questo tempo sospeso della quarantena scandito dalle conferenze stampa di Conte, non funziona più. Proprio perché ora la chiave non è più l’appello alla responsabilità, bensì le risposte che la classe dirigente è capace di mettere in campo.
Non dipende più solo dagli italiani, ora dipende e molto da chi li rappresenta e ha la responsabilità di progettare la nuova complessa società post-Covid. Solo così si può accelerare la ripartenza e, non ultimo, ripristinare lo Stato di diritto e la pienezza della Costituzione.
L’alternativa è aspettare pazienti che il virus si estingua.
Però non la si spacci per una sofisticata strategia. E non ci si aspetti che sia l’unica estinzione.