C’è un tratto che accomuna gli apprendisti stregoni che hanno preso il potere sulle due sponde dell’Atlantico: l’illusione della semplicità. Via ricette e analisi sofisticate: per risolvere i problemi bastano idee banali, sfuggite alle classi politiche che hanno governato finora. Dalla Brexit ai dazi di Trump, fino all’aumento a dismisura del deficit di Di Maio e Salvini, c’è una bacchetta magica per tutto. Peccato che gli incantesimi non durino.
La parabola del populismo spaccone è già ben visibile nel Regno Unito. Pochi giorni fa, i negoziatori di Londra e Bruxelles hanno pubblicato una bozza di accordo sulle modalità di uscita di Londra dall’Ue. Il documento riguarda punti controversi, come il periodo di transizione di 21 mesi che seguirà la Brexit, a fine marzo del 2019. Dopo il referendum del 2016, il governo di Theresa May si era lanciato in sperticate promesse: la Gran Bretagna non avrebbe dovuto sottostare alle leggi europee durante la transizione e ci sarebbero stati nuovi accordi commerciali con Paesi terzi dopo l’uscita. Così non è: la Gran Bretagna ha dovuto cedere su quasi tutta la linea per evitare una pericolosissima Brexit “senza accordi”. Agli euroscettici più duri è rimasta solo una grottesca gita in barca sul Tamigi, per protestare contro la decisione di restare almeno inizialmente nella politica comune della pesca.
Il secondo millantatore è il più famoso: Trump, diventato presidente promettendo di far tornare lavori manifatturieri negli Usa riducendo il deficit commerciale americano. La settimana scorsa, ecco arrivare i dazi: prelievi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio, le produzioni di quel Midwest che ha voltato le spalle ai Democratici per far trionfare Trump.
Non è una semplice svolta verso il protezionismo. Per ora Washington ha concesso esenzioni a Paesi “amici”, tra cui Messico, Canada e Ue, e spera di usarle come un’arma di ricatto nelle negoziazioni: si pensi, ad esempio, alle discussioni in corso sul Nafta, l’accordo commerciale del Nord America, dove Trump ha promesso di ottenere condizioni migliori proprio da Messico e Canada. Non a caso il presidente francese Macron ha detto che l’Ue non rinegozierà nulla «con una pistola puntata alla testa».
Trump, però, si è dimenticato che le sue azioni avrebbero provocato una reazione opposta. Quella della Cina, che ha minacciato dazi di rappresaglia, tra cui un prelievo del 25% sulle importazioni di maiale e del 15% sui cavi di acciaio. La guerra commerciale è iniziata. A scapito dei lavoratori americani che vivono della domanda estera dei loro prodotti.
Tutto questo dovrebbe essere un monito per i due fattucchieri nostrani: Di Maio e Salvini. Per mesi Lega e 5 Stelle si sono sfidati a colpi di promesse, accusando i vecchi partiti e gli “esperti” di non aver capito nulla di politica economica. Saranno dunque loro a incantare i partner europei, ottenendo ampi margini per le loro misure espansive, dalla “flat tax” al reddito di cittadinanza. Per Salvini, poi, si potrebbe arrivare all’uscita dall’euro, descritta come un’operazione che si può compiere semplicemente. Ove andassero al governo, invece, per Di Maio e Salvini è pronto ben altro destino. Il peso negoziale italiano è infinitamente minore rispetto a quello degli Usa. Il costo dell’uscita dall’euro maggiore di quello di uscire dall’Ue. Ai due negromanti toccherà inventarsi altre formule.