L’avvento e le sorti dell’industria 4.0 hanno appassionato gli ingegneri e i tecnologi, subito dopo si sono aggiunti i sociologi ma il convinto plauso di un filosofo è sicuramente una novità. Basterebbe quest’annotazione a conferire originalità al lavoro di Giovanni Mari, che trova però ulteriori elementi di convalida negli sviluppi politico-culturali che ci lascia intravedere.
Nel suo viaggio dentro le trasformazioni dell’industria e del lavoro ( Libertà dal lavoro, il Mulino) Mari si dichiara, sin dalla prima pagina, debitore di una figura-chiave del movimento sindacale, Bruno Trentin, al punto che, scrive, «se non avessi incontrato la sua opera questo libro semplicemente non esisterebbe». È il legame tra libertà e conoscenza ad attirarlo e a farlo arrivare alla conclusione che nel mondo del lavoro 4.0 i contenuti della conflittualità tra imprenditori e dipendenti «riguardano prima di tutto la questione della formazione». Quell’istruzione dei lavoratori considerata un aspetto cruciale della democrazia già ai tempi dalla Rivoluzione francese.
Nelle lotte settecentesche — riepiloga Mari — il contenzioso si concentrava nella difesa del mestiere contro l’innovazione tecnica (il luddismo), nel conflitto dell’era fordista ha dominato la scena il trittico salario/tempo libero/welfare mentre all’epoca del digitale è l’accesso alla formazione a conquistare il centro del ring, come condicio sine qua non per l’autorealizzazione della persona e la qualità del lavoro. E una conferma della tesi di Mari viene dal contratto dei metalmeccanici che, nella sua ultima versione, contiene per la prima volta il riconoscimento del diritto alla formazione per tutti i lavoratori e non solo per un selezionato nucleo.
Il diritto all’aggiornamento tecnico professionale diventa quindi l’elemento su cui ruota il conflitto ma necessariamente anche la ricerca di un nuovo patto sociale. Nella seconda rivoluzione industriale il compromesso si basava sull’equilibrio tra stabilità e subordinazione, nel 4.0 l’identità del lavoratore non può più essere negata in nome delle esigenze del comando, pena la caduta della produttività. L’impresa innovativa ha bisogno di dipendenti autonomi e capaci di iniziativa creativa, deve dunque trovare la strada di un nuovo scambio che stavolta non include l’ubbidienza. Da una parte l’azienda apre all’autorealizzazione del lavoro e alla sua (relativa) autonomia e dall’altra chiede due contropartite particolarmente preziose: il coinvolgimento e la responsabilità.
Si può aggiungere che l’impresa innovativa — o, come direbbe Antonio Calabrò, «riformista» — fa del pieno coinvolgimento addirittura un vantaggio competitivo nei confronti della concorrenza, più sa far muovere l’intera filiera dei suoi collaboratori come fosse un’orchestra, più se ne avvantaggiano le performance aziendali. Perché, chiosa Mari, «il coinvolgimento non può essere semplicemente individuale».
Ma è possibile che questo clima caratterizzato dalla comune assunzione di responsabilità possa essere codificato? L’autore propende nettamente per il sì e parla di «forme costanti di partecipazione» che rappresentino «una democrazia e una dialettica del coinvolgimento che conosca solo il limite dell’efficienza aziendale». Perché tutto ciò proceda con pieno successo, però — secondo Mari —, bisogna operare lo sforzo di andare oltre la retorica delle skill, le più aggiornate competenze tecniche da sole non sono sufficienti. C’è bisogno di cultura generale, perché come ha scritto Edgar Morin, «più potente è l’intelligenza generale più grande è la sua facoltà di trattare problemi speciali».
Alla fine del libro di Mari resta un dubbio: non c’è il rischio di descrivere un itinerario che coinvolge i pochi piuttosto che i tanti? Non stiamo assistendo alla nascita di una nuova aristocrazia operaia? Risponde, seppur indirettamente, Mari: «Rimane il gap, in certi casi drammatico e ancora senza una ricerca di soluzioni, rispetto alla forme di poor work, di lavoro povero».
*Corriere della Sera, 22 dicembre 2019