Mario Draghi l’ha chiamata «una stanza buia». È il luogo nel quale si trova l’area euro oggi secondo il presidente della Banca centrale europea. L’ha spiegato lui stesso nella sua tradizionale conferenza stampa, ora che gliene restano solo sette alla fine di un mandato in scadenza a ottobre prossimo: «In una stanza buia ci si muove a piccoli passi – ha detto la settimana scorsa – non si corre, ma comunque ci si muove». È così che Draghi la scorsa settimana ha spiegato la decisione di lanciare una nuova offerta straordinaria di liquidità a lungo termine per le banche e soprattutto di annunciare che sicuramente almeno fino alla fine dell’anno non alzerà i tassi d’interesse.
Per Draghi stesso ciò significa qualcosa di preciso: sarà il primo presidente della Banca centrale europea, e uno dei pochissimi leader di una grande banca centrale della storia, a completare un mandato senza aver preso una sola misura restrittiva. Nella prima riunione del Consiglio direttivo della Bce sotto la sua presidenza, nel 2011, esordì con un taglio dei tassi d’interesse e molte altre misure espansive sarebbero seguite fino alla scorsa settimana. Non è colpa del banchiere centrale italiano. Nella prima parte del suo mandato, è dipeso senz’altro dalla crisi finanziaria e istituzionale nella quale era scivolata l’area euro; nella seconda parte del mandato, dalla necessità di dare una spinta alla ripresa dopo la ricaduta in recessione indotta dagli errori di Jean-Claude Trichet, il suo predecessore, e dalla pressione della Germania per un risanamento dei conti troppo rapido in zona euro.
Ma adesso? Le previsioni di crescita dello staff della Bce per il complesso dell’area, all’1,1% nel 2019, sono metà della metà rispetto a ciò che la stessa Eurotower prevedeva un anno fa e molto meno dell’1,9% che si aspettava nell’autunno dell’anno scorso. La ripresa in Europa ha deluso profondamente. Draghi uscirà dalla Bce avendo offerto solo misure di sostegno, a quanto pare, perché altri attori dell’economia europea non lo hanno fatto abbastanza. Il livello degli investimenti pubblici è rimasto fermo al 2,6% del Pil dell’area euro da quando la stessa Bce ha lanciato la campagna che in più di quattro anni avrebbe portato a quasi 2.600 miliardi di acquisti di titoli (in gran parte pubblici) sui mercati. Molti paesi, con l’Italia in primo piano, non hanno rafforzato abbastanza l’efficienza delle loro istituzioni e liberato gli ostacoli alla produzione e all’offerta per essere più in grado di crescere. Così l’area euro è diventata un’economia squilibrata, sempre più dipendente dalla Bce all’interno e dalla domanda dal resto del mondo per sostenere la ripresa.
Proprio questo squilibrio ha reso «buia» la stanza in cui l’Europa si muove oggi. Una Brexit ingovernabile è ormai qualcosa più di una vaga minaccia. La Cina è un’economia profondamente indebitata, che avrà bisogno di una svalutazione per evitare tensioni finanziarie; per la Germania ormai la Repubblica popolare è un partner commerciale più importante anche degli Stati Uniti, ma gli anni d’oro degli aumenti a doppia cifra dell’export per ora sono passati: nell’ultimo anno il fatturato dell’area euro in Cina è addirittura sceso. Quanto agli Stati Uniti, il presidente Donald Trump non si è limitato ad aprire una complessa guerra commerciale con Pechino. Ora ne minaccia una anche con l’Europa sull’import di auto e dei loro componenti. L’area euro a guida tedesca ha scelto da anni di comprimere investimenti e domanda interna, per affidarsi al resto del mondo per crescere. Oggi che questa strategia dimostra i suoi limiti, solo la Bce agisce per un riequilibrio. Almeno, per i prossimi sette mesi finché Draghi resta al suo posto.
L’Economia, 15 marzo 2019