Provate un attimo a cambiare visuale e immaginate di osservare il panorama europeo dal tredicesimo piano del Berlaymont, a Bruxelles. È lì che la Commissione si riunisce ogni settimana. Quel che vedreste è uno spettacolo che non può rassicurarvi: il convergere di tre problemi pesanti come macigni, da capitali diverse, direttamente sul vostro tavolo circolare in quella sala; sul vostro e su quello nel palazzo dall’altro lato di Rue de la Loi, dove i leader e i ministri dei governi europei aspettano che presentiate qualche ipotesi di soluzione.
I tre problemi — in parte staccati l’uno dall’altro, in parte no — riempiono le cronache in tutto il mondo da mesi: la scivolata sempre più angosciosa del Regno Unito fuori dall’Unione europea mentre a Londra si rischia pericolosamente di perdere il controllo; il bilancio in deficit dell’Italia, contrario alle regole europee, sotto la nube dei mercati, di una recessione all’orizzonte e di una Brexit caotica; la rivolta dei gilet gialli che rischia di paralizzare Emmanuel Macron e spinge il presidente a offrire denaro per placare la protesta gonfiando il disavanzo.
Sarebbe complicato già solo affrontare una sola di queste tre sfide. Invece tutte insieme negli stessi giorni pesano sugli stessi tavoli di Bruxelles, dove la Commissione propone e i governi riuniti dispongono. Non si considera mai abbastanza che coloro che decidono in Europa sono esseri umani come gli altri, mossi da un misto di calcolo e emozioni come la paura. Anche loro tendono istintivamente a limitare al massimo i rischi immediati per se stessi. Non vogliono si possa dire che hanno agito arbitrariamente violando le procedure o forzando l’orientamento generale. Non vogliono accuse di aver operato controcorrente, se poi non ci fosse un lieto fine. Non vogliono essere loro quelli che, concedendo, rivelano che il sistema europeo non era granitico ma ricattabile. Se poi sono leader nazionali, non vogliono sfidare i propri elettori.
Questo istinto naturalmente assume forme diverse nei vari casi e sulla Francia spinge molti a non ostacolare il tentativo di Macron di modernizzare il Paese. La scommessa del giovane presidente è troppo importante per la tenuta dell’euro, troppo importante per una Germania che non vuole proiettare un’immagine di sé come leader solitario d’Europa. Dal 2007 il reddito per abitante dei francesi è cresciuto dello 0,4% all’anno, la metà meno ricca del Paese ha perso terreno. Ha profondamente senso che Macron sostenga i redditi mentre tenta difficili riforme: ne ha anche se, a torto, questa strada è già stata preclusa in passato ad altri Paesi europei.
Sull’Italia e la Gran Bretagna invece il senso comune di Bruxelles oggi scorre in direzione opposta. Per apparire granitici nel 2016 si negarono a David Cameron quelle poche concessioni che avrebbero aiutato l’allora premier a vincere il referendum, impedendo la Brexit. Ora dietro il rifiuto a priori a rinegoziare l’accordo di uscita con Londra, dove il parlamento è in rivolta, si intravede anche un desiderio inconfessabile: impartire una lezione esemplare, mostrare a tutti il costo della secessione dalla Ue. Come se l’Unione potesse reggersi sulla paura e non su passioni e interessi positivi. Come se una rottura storica con la Gran Bretagna, a un costo altissimo per tutti, non promettesse cattivo sangue e altri guai per molti anni a venire.
Anche sull’Italia l’idea di impartire una lezione cova giusto dietro l’angolo. Il bilancio presentato dal governo è indifendibile: cerca di distribuire denaro in deficit a pioggia, senza uno straccio di visione per rilanciare un Paese che ne avrebbe disperatamente bisogno. Ma dopo il «no», cosa propone Bruxelles agli italiani il cui reddito dal 2007 è sceso del 6%? Una garanzia europea sui depositi è di nuovo rinviata, un fondo di riassicurazione sulla disoccupazione escluso (eppure avrebbe ammortizzato la crisi), vago e minimale il progetto di un bilancio anti-choc dell’area euro. Dall’altra parte non c’è niente di tutto questo. Ci sono chiusure a volte non meno nazionaliste e opportunistiche di quelle dei populisti stessi. Ci sono narrazioni moralizzatrici sul conto di Paesi interi, che finiscono per rivelare un intrigante complesso di superiorità. Va bene la lezione esemplare, ma dopo?