Il Bo Live ne ha spesso parlato, ma è diventato un tema persistente soprattutto quando Pietro Greco ne è stato il caporedattore: i rapporti bilaterali e multidisciplinari fra arte e scienza. Esistono qui e ovunque sul pianeta, da milioni di antropomorfi anni. Se ne occupava da decenni prendendo spunto ora da quello scienziato ora da quell’artista, ora da quella disciplina ora da quell’espressione culturale, oppure il binomio gli serviva per contestare rigide separazioni e binomi fra le differenti qualità dei talenti umani e all’interno delle infinite conoscenze con i quali noi sapiens distinguiamo il sapere che si accumula e manifesta. L’ultimo volume pubblicato da Pietro come autore unico è stato proprio dedicato a una trattazione organica dell’argomento, i significati e i nessi umani di arte e di scienza: Homo. Arte e scienza, Di Renzo Editore Roma 2020. Inizia inevitabilmente da Primo Levi. Il chimico, scrittore e poeta a suo tempo ci aveva ammonito con l’autorevolezza del genio: ogni separazione tra letteratura e scienza, più in generale ogni separazione tra arte e scienza, è una “schisi innaturale”.
Ogni sforzo di dividere la cultura umana in monadi incomunicanti si risolve nella costruzione di un mostro artificioso. Eppure questi tentativi sono stati reiterati nei secoli scorsi, Pietro Greco lo aveva denunciato in quasi tutte le migliaia di occasioni nelle quali gli era capitato di scrivere articoli o di parlare in pubblico. Le due culture, scientifica e umanistica, sono state spesso separate, pur a forza e “contro natura”; molti scienziati e umanisti hanno rifiutato di confrontarsi o stentato a riconoscere analogie e omologie. In realtà, l’arte e la scienza sono manifestazioni in apparenza di diversa origine e struttura ma, invece, profondamente interpenetrate di un’unica cultura, la cultura umana, così come si è evoluta nel tempo. Esistono innumerevoli luoghi significativi dell’intreccio e della reciproca influenza. Leggete il suo libro, appena vi capita, prima possibile, vi si spalancherà un mondo bello e comune; tanto più se non vi sentite né artisti, né scienziati, in parte invece lo siamo, lo siete, scoprirete il perché.
Un saggio sui luoghi condivisi da arte e scienza
Il chimico, scrittore e divulgatore scientifico Pietro Greco (Barano d’Ischia, 1955 – Ischia 18 dicembre 2020) ha scritto, infatti, un bellissimo corposo saggio per mostrarci alcuni di questi luoghi condivisi da arte e scienza: manufatti, artefatti, teorie, esperimenti e personalità collocate nell’evoluzione, nella storia e nella geografia del pianeta umano, con i loro prodotti nel campo multiforme d’inestricabili combinazioni fra differenti arti (pittura, scultura, musica, tutti i generi di letteratura, architettura, teatro, fotografia, cinema, televisione) e discipline scientifiche (biologia, chimica, tutti i generi di fisica, matematica, geometria, neuroestetica, cibernetica). La cruciale questione è distinta in quattro parti narrative: evoluzione (l’arte è il frutto della storia, biologica e culturale), fusione (arte e scienza procedono quasi sempre di pari passo), ispirazione (la scienza diffonde nello spazio delle arti), riflessione (l’arte diffonde nello spazio delle scienze e diventa essa stessa scienza). Ogni parte è suddivisa in tre capitoli, dodici in tutto, corredati di curate citazioni e note. Completano il saggio la significativa dedica ai propri genitori (quando uscì erano entrambi scomparsi da pochi mesi, a pochissimo tempo di distanza l’uno dall’altra) e il prologo all’inizio (con Primo Levi), in fondo la ricca bibliografia e il sommario (senza altri indici), al centro uno splendido apparato di 131 figure e immagini a colori, numerate e richiamate nel corso della trattazione.
Pietro Greco è probabilmente stato il miglior giornalista scientifico italiano dell’ultimo trentennio, a lungo formatore dell’intera categoria. Qui riesce a vincere connesse ardite sfide: spiegare cosa siano arte e scienza per noi umani sapienti; illustrare da quando, come e perché ne abbiamo praticato l’espressione; esemplificare quanto entrambe siano soprattutto il combinato risultato, universale e storico, di singoli geniali individui. La cultura materiale simbolica, ovvero la primordiale arte figurativa, non è una prerogativa della nostra specie sapiens. Esisteva da prima della nostra apparizione, è appartenuta ad altre specie precedenti o coeve del genere Homo (da cui l’incipit del titolo, suggerito dall’editore) e, come la scienza, è la manifestazione del pensiero astratto e simbolico nel tentativo di fornire una rappresentazione razionale del mondo circostante e anche di conservare memoria stabile di questa rappresentazione.
Dalla preistoria alla moderna società democratica della conoscenza
Implicito è il riferimento all’evoluzione bipede di una parte africana degli ominidi e degli ominini (che libera mani e modifica le prospettive sensoriali). Le loro capacità cognitive furono poi segnate dall’ampliamento del volume del cervello e dall’affinamento delle capacità artigiane, via via adattatesi ai differenti ecosistemi, conosciuti coi cambiamenti climatici o incontrati migrando. Alle primitive potenzialità estetiche (anche di altri animali) si è aggiunta la nostra peculiare capacità di creare simboli per gestire le spinte selettive (naturali e sessuali) dell’evoluzione. Simboli artistici e scientifici, ben sapendo che non esistono creatività artistica e creatività scientifica fuori dallo spazio e dal tempo e, quindi, dalla preistoria e dalla storia dell’insediamento umano in ogni ecosistema del pianeta. Il tema è bello, la trattazione scientifica e filosofica risulta “meravigliosa”, appassionante e stimolante, attraverso la biografia di scienziati e di loro belle scoperte, di artisti e di loro scientifiche opere, attraverso lo studio del cervello, delle simmetrie e delle ambiguità, delle componenti emotive e razionali delle umane esistenze, fino al magnifico Convivio dantesco e alla moderna società democratica della conoscenza. Che e quanta bellezza!
Il volume era stato finito di stampare nel mese di settembre 2020, ne diede lui stesso notizia su Facebook il 29 di quel mese, appena arrivatogli. Quasi in contemporanea si potevano trovare in libreria altre novità librarie di cui era autore (da aprile “Trotula. La prima donna medico d’Europa”, L’Asino d’oro; dal 10 settembre “Quanti”, Carocci; da fine ottobre “ETI, Intelligenze extraterrestri”, Doppiavoce), coautore (da giugno, con Roberto Besana, “L’albero”, Töpffer; ancora da giugno con Gianni Battimelli e Giovanni Ciccotti, “Il computer incontra la fisica teorica”, Carocci), curatore (da novembre “Mezzogiorno di scienza”, Dedalo). E magari scordo anche qualcosa: quando l’editore non lo inviava, Pietro li metteva da parte per consegnarli a mano, non c’è più stato modo di incontrarsi. “Homo” ebbe subito alcune autorevoli recensioni, Pietro riuscì a farne alcune rare presentazioni online (organizzate naturalmente a distanza fra l’altro a Foligno, Fermo, Perugia) e radio (segnalo quella del 6 novembre notte a Radio3 Suite), ovviamente in mezzo a innumerevoli altri articoli giornalistici e scientifici, recensioni e incontri su libri altrui o sui temi più disparati. Per varie ragioni, connesse al suo intero percorso biografico intellettuale ed emotivo, il saggio su “Arte e scienza” storicizza le umane conoscenze e riassume il personale approccio scientifico e comunicativo.
“L’arte è il frutto di una prima evoluzione biologica e culturale del nostro genere; la scienza emergerà dopo”
Consiglio affettuosamente la lettura del saggio, meriterà di essere spesso ripreso in mano. Dopo tanti trascorsi confronti nel merito, anche quella volta parlammo subito del prodotto editoriale compiuto, più volte, a lungo. Mi consentii anche di fargli alcune osservazioni. Pietro aveva recensito quasi tutti i miei libelli, anch’io vari dei suoi innumerevoli. Ogni volta capitava di scambiarci apprezzamenti (più o meno al novantanove per cento verso di lui), domande, curiosità e pure qualche dubbio, sia pubblicamente che soprattutto privatamente, con l’indispensabile fraterno comune spirito critico. C’è chi soffre dei propri pregi e non gode dei difetti altrui. Questa volta, fra l’altro, sottolineai, sorridendo al telefono, che forse avrebbe dovuto parlare più spesso delle mani anche nella prima parte, non solo nell’ultima. Ci pensò un attimo, assentì subito dopo: “Ma certo: il pollice opponibile… Faccio ammenda, troverò il modo di fare pubblica ammenda”. Pietro! Il secondo capitolo del suo libro si apre con una breve storia dell’Homo aestheticus, enuncia alcuni fatti incontrovertibili dell’evoluzione biologica umana, segnala le due ipotesi emerse sul perché e sul quando le capacità simboliche e linguistiche siano emerse (l’adattamento di Tattersall, il punctuated equilibrium di Gould ed Eldredge), enuncia due connesse domande che poi ricorrono in tutto il testo: altri generi (non Homo) sono capaci di esprimere un proprio senso estetico? Altre specie del genere (non sapiens) lo avevano comunque già espresso?
Per rispondere alla questione delle capacità cognitive (da cui in larga parte dipendono poi arte e scienza) Greco offre due possibilità o riferimenti complementari: l’encefalizzazione corredata da una tabella (la grandezza del cervello, cresciuta seppur in modo non lineare e uniforme), i prodotti manufatti concreti finora rinvenuti e datati (l’affinamento delle “capacità artigiane”). Non arriva a una conclusione definitiva (non sia mai detto o scritto!), però suggerisce con accortezza, sobrietà e pudore che l’arte sia più antica del pensiero simbolico astratto: petroglifi e ornamento dei corpi hanno preceduto la comparsa dei sapiens, l’Homo è aestheticus da almeno due milioni di anni; l’arte è il frutto di una prima evoluzione biologica e culturale del nostro genere; la scienza emergerà dopo; entrambe risulteranno poi manifestazioni del pensiero astratto e simbolico della nostra recente specie, per tentare di comprendere il contesto e di conservarne memoria in un pianeta sempre più e meglio incontrato grazie alle migrazioni. L’evoluzione bipede degli Homo (precedente l’encefalizzazione) ci andava proprio bene a sostenere il suo ragionamento, lì, il pollice del panda accanto alla coda del pavone (tema del terzo capitolo).
“Poi, certo, i risultati del nostro cervello hanno sopravanzato di molto la facilità con cui è stato realizzato”
Era capitato tante volte che discutessimo della comune passione per Stephen Jay Gould (New York, 10 settembre 1941 – 20 maggio 2002), uno dei grandi scienziati del Novecento (con madre artista), che avevamo letto e recensito entrambi, separatamente, illo tempore. In un fantastico libro del 1980, pubblicato in italiano da Editori Riuniti nel 1983 tradotto con lo stesso titolo “The panda’s thumb”, l’anatomista dilettante Gould sottolineò appunto, fra l’altro, la cruciale innovazione del pollice opponibile (ruotato di circa 90 gradi rispetto alle altre dita), una delle significative (innumerevoli, fantasmagoriche e solo “possibili”) probabili conseguenze del bipedismo, pur non automatica e unica: “la stazione eretta è la vera sorpresa, l’evento di difficile realizzazione, la ristrutturazione rapida e fondamentale della nostra autonomia”, il “passo più grande della nostra evoluzione”. Poi, certo, “i risultati del nostro cervello hanno sopravanzato di molto la facilità con cui è stato realizzato”. Sia l’arte del genere Homo che la scienza della specie sapiens molto si fanno attraverso l’uso sapiente delle mani, con visione e presa salda, di precisione, sugli utensili, grazie a quello speciale adattamento del pollice. Pietro Greco ovviamente ben conosceva tutto ciò, aveva scritto e conferenziato spesso a riguardo per decenni. Nella recensione accenno perciò al fatto che appare un dato “implicito” del suo affascinante volume “Homo”.
Come è noto, le dita, compreso il pollice, non possiedono muscoli, ma i tendini di ventri muscolari che si trovano nell’avambraccio e nella mano, sia nella ragione dorsale che nella regione palmare. Fra questi ultimi, quattro, con origine dal polso, uno è collegato al nervo mediano e si chiama appunto “opponente”. Nell’ultimo decennio varie ricerche hanno confermato quanto era emerso con prime evidenze già da mezzo secolo. Per esempio, recentemente i paleoantropologi dell’Università di Tubinga, hanno creato dei modelli 3D delle dita fossili di un’ampia varietà di antichi ominidi, includendo molte specie del genere Homo e altre specie affini, fra le altre Australopithecus afarensis, A. africanus e A. sediba. e H. Naledi. Simulando la forza del citato connesso muscolo avversens pollicis, che consente al pollice di flettersi verso l’interno nel suo punto di attacco alla base del palmo, e comparandola poi con ulteriori fossili incompleti e con attuali sapiens e scimpanzé, gli studiosi suggeriscono che il pollice umano anatomicamente moderno possa essersi affermato intorno a quasi 3 milioni di anni fa, risultando appannaggio non esclusivo dello stesso genere Homo. Ciò avrebbe permesso agli antichi umani “in progress” di diventare sempre più bravi nella fabbricazione e nella gestione di strumenti di pietra e di co-evolvere, successivamente, con manufatti e artefatti sempre più “cerebrali”.
*Il Bo Live, 18 marzo 2021