Con una correzione del 20% rispetto ai picchi dello scorso gennaio, il mercato azionario cinese è entrato in territorio dell’Orso («bear market»), in coincidenza con un calo dello yuan ai nuovi minimi dell’anno: secondo molti analisti, la correzione della Borsa di Shanghai pare destinata a continuare per l’aggravarsi delle tensioni commerciali con gli Stati Uniti, che si sommano alle incertezze sul passo della crescita interna e ai timori per un eventuale aumento dei default sulle obbligazioni aziendali. In questo contesto, le mosse delle autorità per espandere la liquidità a breve, come la riduzione delle riserve bancarie, segnalano una volontà di sostegno al mercato senza però riuscire a interromperne la tendenza negativa.
Per quanto la contrazione dell’indice di Shanghai sia stata ieri contenuta(-0,5% il Composite, -0,8% le blue chips) – e le piazze europee si siano precariamente stabilizzate dopo il precedente sell-off – appare sempre più difficile il raggiungimento di compromessi che evitino l’esplosione di guerre commerciali.
Hanno fatto impressione le rivelazioni del Wall Street Journal sulle parole di Xi Jinping, che sarebbero state pronunciate davanti a un consesso di imprenditori per lo più stranieri: Xi ha citato il porgere l’altra guancia come un elemento della cultura occidentale che non esiste in Cina, dove invece se colpiti «restituiamo un pugno». Una retorica aggressiva che a sua volta potrebbe irrigidire un Donald Trump che odia apparire debole e ha aperto, in aggiunta a quello dei dazi, il fronte delle limitazioni agli investimenti cinesi. Si attende il report del Tesoro Usa, dopodomani, che raccomanderà forme e modi delle restrizioni all’ingresso nel capitale di aziende tecnologiche americane. Peraltro dall’Amministrazione arrivano segnali confusi: il consigliere economico Peter Navarro è sembrato smentire il segretario al Tesoro Steven Mnuchin, che aveva indicato come target non solo la Cina, ma «tutti i Paesi che stanno cercando di rubare la nostra tecnologia».
Molti temono che Pechino reagisca annullando le recenti promesse di apertura nel settore finanziario, almeno in una direzione: difficile pensare che qualche colosso di Wall Street possa assumere la maggioranza di società finanziarie o joint venture cinesi. Sullo sfondo, si avvicina il 6 luglio, data dell’entrata in vigore di dazi Usa sull’import dalla cina per 34 miliardi di dollari (che farebbe scattare ritorsioni e controritorsioni).
La linea dura della Casa Bianca, intanto, mette sempre più in difficoltà l’alleato Giappone, che attende con trepidazione la lista di richieste dell’Amministrazione in vista dell’avvio di negoziati commerciali bilaterali a luglio. Washington chiede che Tokyo interrompa l’import di petrolio dall’Iran, sesto fornitore di un Paese che ottiene dal Medio Oriente il 90% del suo fabbisogno di greggio. Il Governo del premier Shinzo Abe non ha ancora deciso come rispondere: non vuole irritare Trump, ma non intende intaccare la sua sicurezza energetica. E ieri il Brent ha superato quota 75 dollari.