Da anni le discussioni sull’euro sono dominate da proposte di astrusi meccanismi finanziari per rendere l’unione monetaria — si dice — «più resistente» al prossimo choc. Intanto lo choc è arrivato, ed è di natura politica. Da questa settimana l’Italia ha il suo primo governo di inclinazioni nazionaliste ed euroscettiche degli ultimi 73 anni. Non che sia un evento senza precedenti nel G7 o nell’Unione Europea, se si pensa all’Ungheria, alla Polonia, alla Grecia, alla Brexit o a Donald Trump. Ma dopo queste svolte abbiamo sempre tutti le stesse domande: vogliamo capire se le conseguenze saranno radicali o se invece torneremo pian piano al mondo di ieri.
Per quanto riguarda l’Italia è presto per dirlo. Non lo è però per valutare alcune ragioni che hanno portato fin qui e le lezioni che racchiudono per il Paese, per l’area euro e per il modo in cui tutti noi europei falliamo nel contenere l’onda lunga del populismo. Quelle ragioni ci dicono che le riforme capaci di rendere davvero l’area euro «più resistente» non riguardano solo qualche nuovo ingranaggio finanziario, perché il cambiamento di cui l’Europa ha bisogno è politico: i Paesi Ue devono imparare a collaborare contro lo sciovinismo, come fecero contro il protezionismo dopo la Grande depressione.
Fino a oggi non l’hanno fatto. Il loro atteggiamento verso il populismo ricorda proprio quello degli anni 30 sul commercio internazionale e i dazi: ognuno cerca di spostare il problema addosso al vicino, finché naturalmente gli torna indietro con gli interessi. Chiamatelo pure lo scaricabarile del populismo, ed ecco qualche esempio di come funziona.
Nel 2015 Renzi ottenne la «flessibilità» di bilancio alla Commissione Uesostenendo che aveva bisogno di fare deficit per contrastare l’ascesa dei 5 Stelle. Presto quella decisione infuriò l’opinione pubblica tedesca e alimentò la propaganda del partito di estrema destra AfD contro la cancelliera Angela Merkel. D’altra parte poco prima la stessa irritazione degli elettori aveva spinto Berlino a imporre un rigore eccessivo sulla Grecia, facendo divampare una pericolosa rivolta populista ad Atene nel 2015.
Sulle banche la storia è simile. I partiti nazionalisti in Olanda e Germania si sono nutriti della rabbia dei contribuenti per i salvataggi e ciò ha portato i governi a sostenere in Europa norme stringenti contro gli aiuti alle banche. Ma l’effetto in Italia è stato diametralmente opposto: la direttiva europea sul «bail-in» di fatto ha prolungato la stretta al credito, mentre le perdite imposte ai risparmiatori non hanno fatto altro che alimentare la protesta populista.
Altro caso, l’immigrazione. Durante la prima parte dell’ondata di sbarchi l’Italia ha reagito lasciando uscire i migranti attraverso le Alpi, dunque in sostanza ha delocalizzato il problema a Francia e Austria. Ciò ha rafforzato gli ultranazionalisti della Fpö a Vienna e di Marine Le Pen a Parigi. Ma quando Francia e Austria hanno risposto chiudendo i confini, è toccato alla Lega mietere consensi grazie alla frustrazione che iniziava a diffondersi in Italia. Lo scaricabarile si è ritorto in pieno contro il Paese.
Ma non sarebbe onesto presentare l’Italia semplicemente come la vittima di ritorsioni europee. Alla radice della sua svolta politica si trovano cause in primo luogo interne, e antiche. Per molto tempo i governi non hanno fatto abbastanza nell’interesse dei cittadini. Non per niente gli italiani hanno alle spalle un ventennio perduto, dato che gli attuali livelli di reddito per abitante furono raggiunti per la prima volta già più di vent’anni fa. Queste sono ferite che l’Italia si è inflitta da sola, da tempo.
Dopo il 1945 il Paese aveva cambiato le sue istituzioni politiche più di quanto abbia mai riformato quelle economiche; l’Italia è passata dalla dittatura alla democrazia, ma alcuni dei tratti del fascismo sono rimasti nel funzionamento del sistema produttivo: il corporativismo, la commistione del governo nell’industria e nella finanza. La definizione dei contratti di lavoro per esempio è ancora centralizzata a livello nazionale, malgrado gli enormi scarti di produttività fra imprese e territori. Per quanto dure da cambiare dati gli interessi in gioco, queste sono strutture incompatibili con un’unione monetaria.
Poi però l’Europa ha aggiunto del suo all’ondata populista in Italia. Il conservatorismo di bilancio in piena recessione e la difficoltà della Bce a svolgere in pieno il suo ruolo fino al 2012 hanno prodotto un livello di austerità che ha destabilizzato i ceti medi e le loro preferenze politiche: quando Mario Monti divenne premier nel 2011, 5 Stelle e Lega insieme nei sondaggi non facevano il 10%; oggi sono sopra il 50%. Dei problemi che sarebbero seguiti sulle banche e i rifugiati si è detto.
Così in ogni Paese i politici tradizionali cercano di pararsi le spalle ciascuno dai populisti di casa facendone in parte propria l’agenda. Ma ciò attizza il nazionalismo aldilà dei confini. Il risultato è un effetto domino che oggi sta diventando la maggiore minaccia al futuro dell’euro e della Ue. Ha fallito l’approccio europeista tradizionale di raggiungere la convergenza coordinandosi, perché strutture così decentrate non riescono a farlo in tempi di crisi. Nessun singolo governo vuole farsi carico dell’onere maggiore, ma questo alla fine lo aumenta per tutti. Naturalmente se i leader moderati sono incapaci di cooperare contro il nazionalismo, è perché in gioco c’è sempre il loro destino personale alle prossime elezioni. Sfugge loro che così lo scaricabarile finirà per ritorcersi contro tutti. Ma dubitiamo che impareranno la lezione tanto presto: rischiano di andare avanti, come con il protezionismo, finché i danni non saranno troppi per tutti.