Mercoledì scorso Giancarlo Giorgetti aveva meditato il colpo di scena. La lettera di dimissioni già scritta in attesa della sentenza di Milano su Massimo Garavaglia. In caso di condanna «ce ne saremmo andati in due, seduta stante ». Per non finire di nuovo sotto la gogna giustizialista del Movimento 5 stelle che avrebbe cominciato il solito can can per chiedere la testa del viceministro dell’Economia come era già successo con Armando Siri e Edoardo Rixi. Poi è arrivata l’assoluzione. Giorgetti ha strappato la lettera platealmente così come platealmente e polemicamente l’aveva scritta. Ma a malincuore. Per ora è costretto a restare ma può sempre riprendere carta e penna.
In questo governo non vuole più starci da tempo, perché, dice, «il problema non sono solo le autonomie, il no alla Tav, il no alla Gronda di Genova» che pure sembrano macigni. È piuttosto una questione di «metodo e di convivenza con i grillini ». A questo punto è anche un contrasto (anche se leale) con Matteo Salvini e la sua indecisione. Il leader del Carroccio, a chi gli chiede di rompere finalmente, risponde in queste ore con una frase sibillina ma possibilista, incerta ma pugnace: «Non si tratta più se aprire la crisi o meno. Si tratta solo di capire il quando». Una formula che non basta a liberarsi dal pressing degli anti-Di Maio.
Il quando, secondo buona parte dello stato maggiore leghista, è passato da un pezzo. C’è l’intero partito del Nord pronto da settimane allo strappo. «Il testo sulle autonomie è annacquato, così non cambia niente». I governatori non si fidano più. «Questo governo di cialtroni per un pugno di voti soffoca un volano di crescita — attacca il presidente della Lombardia Attilio Fontana — e contrabbanda il testo come una battaglia tra il Nord e il Sud». L’obiettivo sono i 5 stelle e al dunque Giuseppe Conte. Non va bene niente nei documenti che stanno preparando a Palazzo Chigi. Non va bene l’intesa sugli insegnanti, non va bene la divisione delle soprintendenze e il tavolo negoziale non ha ancora affrontato la madre di tutte le battaglie autonomiste: la distribuzione delle risorse. Se ne comincerà a parlare domani, ma i governatori della Lega stanno già mettendo le mani avanti temendo una sorpresa negativa sul punto-chiave della sfida federalista: i soldi. L’autonomia quindi potrebbe essere il famoso “quando”, l’occasione, il pretesto. A Palazzo Chigi invece non ci credono visto che la Lega, forte del suo 34 per cento europeo e di sondaggi in continua crescita, è un partito nazionale. Vuole davvero sbattere la porta perdendo un pezzo di elettorato al Sud? Difficile, pensa Conte. Ma sottovaluta la potenza deflagrante di un Carroccio in ebollizione.
A Salvini i sostenitori del tana libera tutti fanno questo ragionamento: «I sondaggi dicono che siamo oltre il 35 per cento, i 5 stelle sono fermi al 17, la sinistra non ha pronta nè una coalizione nè un leader, Forza Italia è morta. Quale momento migliore possiamo attendere? ». Salvini pensa e ripensa. Sa per esempio che lo stesso tipo di analisi viene fatta nelle stanze dei dem (compresa la parte che li riguarda). Non è un buon viatico per fare quello che si aspetta la Lega ma anche il Pd. L’incognita infatti resta la scelta di Sergio Mattarella dopo l’apertura formale di una crisi. Al ribaltone di un governo Pd-5stelle non credono i diretti interessati e nemmeno il Colle. Ma esistono quelle che si chiamano «soluzioni intermedie». La fantasia, che in Italia non manca mai quando si deve costruire una nuova maggioranza, può portare a sbocchi diversi dalle elezioni anticipate. Per Salvini questo è l’incubo. Che solo un colloquio con il capo dello Stato può chiarire.
Da Giorgetti a Garavaglia, da Fontana a Zaia il coro è unanime: rompiamo l’alleanza e basta. I toni salgono, la valanga cresce. «Non è il governo che decide il testo — tuona il governatore del Veneto — . Conte ora ha davanti a sé a due alternative: o ci presenta il testo o getta la spugna, mandando all’aria tutto. Io tifo perché ci sia un testo ». Un’apertura? Mica tanto: «Dev’essere autonomia vera e non una presa in giro. Dai 5 stelle non viene alcuna proposta, solo giudizi sulle idee altrui». È il partito dei No, dei veti quello che la Lega nordica non sopporta più. L’altra partita, sempre che ci arrivi un governo in carica, coinvolge il commissario europeo. Dopo il gran rifiuto di Giorgetti, Di Maio ha proposto a Salvini di indicare la diplomatica Elisabetta Belloni. Ma il Carroccio non ci sta, vuole un profilo politico, non accetta nemmeno l’ipotesi che circola in questi giorni di mandare a Bruxelles Letizia Moratti. Una pace appare impossibile, ma è il Capitano che decide per tutta la squadra.