Il primo numero che si impone è 205. Lega e Fratelli d’Italia avrebbero da soli la maggioranza in una Camera decurtata dal taglio dei parlamentari (da 630 a 400) e frutto di nuove elezioni con il cosiddetto Germanicum. Ossia il sistema proporzionale con sbarramento al 5 per cento, la piattaforma di nuova legge elettorale sulla quale stanno attualmente convergendo i due principali soci di governo, Pd e 5 Stelle.
Eccola, quindi, la fotografia di Montecitorio se si andasse a votare oggi: centrodestra a quota 234 seggi su 400 (ai 149 della Lega e ai 56 di Fratelli d’Italia andrebbero aggiunti i 29 di Forza Italia), Pd a 96 e 5 Stelle a 65. Ai renziani di Italia viva, ora principali attori delle turbolenze interne alla maggioranza, verrebbe riconosciuto giusto un diritto di tribuna (3 scranni) previsto, se il testo di legge sarà confermato, per le formazioni minori che pur non superando lo sbarramento del 5 per cento su scala nazionale riescono in almeno due Regioni e tre circoscrizioni a raggiungere il numero di voti necessario per l’ottenimento di un seggio.
Una rivoluzione copernicana rispetto agli attuali assetti, specchio di una simulazione realizzata sulla base dei sondaggi Ipsos eseguiti tra dicembre e gennaio, su un campione totale di 8 mila persone: mentre la coalizione di Salvini avrebbe saldo il timone, il Partito democratico diventerebbe il secondo gruppo parlamentare con il Movimento in una posizione subalterna (sommandoli farebbero 161 deputati). La sinistra di Leu si dissolverebbe. È chiaro il riflesso maggioritario innescato dalla soglia del 5 per cento, più che dal ridotto numero dei parlamentari. Per capirsi: rilevazione dei consensi alla mano, alla Lega e al partito guidato da Giorgia Meloni viene accreditato complessivamente un 44% che porta però in dote più della metà della Camera (il 51%). Di fatto, la miscela tra la nuova ipotetica legge elettorale e i voti stimati al partito fondato da Beppe Grillo fa precipitare in archivio quel tripolarismo che ha reso quasi impossibile la formazione degli ultimi governi.
«In questo quadro — commenta il presidente di Ipsos Nando Pagnoncelli — l’effetto maggioritario si traduce anche nella presenza di solo sei forze politiche in Parlamento più l’Svp. Il che non è esattamente in linea con le aspettative degli elettori che in questa fase stanno premiando più forze politiche, anche quelle con valori nettamente inferiori al 5%. Un meccanismo che potrebbe indurre un’aggregazione tra forze contigue con le consuete incognite sulle reazioni dell’elettorato». Ragionamento che può valere, ad esempio, per Renzi e Calenda o per tutti i partiti minori alla sinistra del Pd.
Va sottolineato che stiamo parlando di un quadro ancora assolutamente virtuale. Per svariati motivi. Uno: la quota di indecisi tra gli elettori (comprende anche il non voto) resta piuttosto alta. È il 39,1%. Un grumo che potrebbe in parte sciogliersi e far mutare la direzione del vento. Due: si parla di sondaggi e non ancora di schede vere. Tre: bisognerà poter simulare anche la ripartizione del Senato (dove è aperta la partita sull’età degli elettori) per farsi un’idea completa. Quattro: dopo le elezioni in Emilia-Romagna e la vittoria della formazione di Zingaretti, il governo, seppure sempre minato (vedi alla voce prescrizione), ha ambizioni a durare. In linea del tutto teorica, salvo forzature o incidenti, altri tre anni, fino al termine della legislatura. Un tempo in cui ogni cosa può cambiare. Una sfida soprattutto per Salvini chiamato a trovare una strada per mantenere la sua dote.
Presto, inoltre, si misurerà nuovamente la temperatura dei partiti con una tappa intermedia. In primavera andranno alle urne sei Regioni: Veneto, Campania, Toscana, Puglia, Liguria e Marche. Una campagna elettorale permanente.