Sergio Mattarella nei giorni scorsi aveva incalzato i partiti su un punto fra gli altri: è necessario che il prossimo governo sia in funzione per il 28 giugno, quando a Bruxelles si riunisce un vertice europeo destinato a decidere molto degli assetti futuri dell’euro. Quello che il presidente della Repubblica nel suo ruolo non poteva aggiungere è che più dura lo stallo a Roma, più il negoziato fra le altre capitali va avanti senza un ruolo pieno dell’Italia anche sui temi — debito e banche — nei quali questo Paese è il cuore del problema. C’è però un altro aspetto che sembra sfuggire agli uomini che in questi giorni sfilano al Quirinale: proprio l’Italia e l’esito delle urne il 4 marzo sono diventati, implicitamente, un argomento brandito da Berlino e altre capitali del Nord per ridurre al massimo qualunque concessione.
Si negozia sulle banche, su un’assicurazione europea per i depositi dei risparmiatori, sul fondo salvataggi (Esm). E la parola d’ordine è sempre la stessa: sfiducia. È questo il sentimento prevalente all’Aia, a Berlino, a Helsinki, persino a Bratislava e nei Paesi baltici in vista di qualunque accordo si delinei a fine giugno a Bruxelles. Il voto italiano ha contribuito a convincere molti governi che non si possono fare concessioni — potenzialmente coperte dal denaro dei propri contribuenti ed elettori — a un Paese dove non c’è una maggioranza che dia garanzie di stabilità finanziaria. Poi c’è anche chi usa questa nuova realtà solo per far saltare il compromesso che comunque non voleva firmare.
La posta in gioco, naturalmente, è la revisione dell’architettura dell’area euro sulla quale Emmanuel Macron insiste da un anno. Il presidente francese è convinto che giugno sia l’ultima occasione di rafforzare la struttura dell’unione monetaria, prima che parta la campagna elettorale delle Europee del 2019 e poi magari l’economia rallenti. Il tema che assorbe di più i negoziatori è proprio il progetto di un fondo comune che assicuri i depositi bancari (fino a 100 mila euro), per scongiurare in futuro il panico e la corsa agli sportelli già visti per esempio in Grecia nel 2015. È un impegno preso dalla Germania dal 2012, mai mantenuto anche se da allora tutti hanno accettato e preso sul serio la vigilanza bancaria europea.
Ora Berlino capisce che deve cedere terreno, e lo fa nello spirito di una sorta di «Maastricht delle banche»: solo chi soddisfa un gran numero di condizioni avrebbe diritto (fra 8 o 10 anni, non prima) di accedere alla copertura di quella assicurazione. Alcune delle condizioni corrispondono a ciò che l’Italia avrebbe già dovuto fare, per esempio arrivare a tempi meno lunghi nei fallimenti e nel recupero dei beni messi a garanzia in caso di insolvenza di un debitore verso la banca. Altre condizioni poi sono più draconiane: non solo la riduzione dei crediti in default nei bilanci bancari, ma anche quella dei titoli di Stato in quanto considerati a rischio di insolvenza.
Secondo l’Italia dare questo messaggio agli investitori destabilizzerebbe il mercato del debito, ma manca un governo per negoziare nella pienezza dei poteri. Non è tutto. Fra le condizioni indicate da tedeschi e olandesi per l’assicurazione sui depositi c’è anche la rinuncia al tipo di interventi pubblici, tutti legali, che negli anni scorsi hanno stabilizzato Montepaschi o le banche venete: la liquidazione e le ricapitalizzazioni «precauzionali».
Non mancano poi altri fronti aperti. Uno riguarda il governo del fondo salvataggi, l’Esm. Da lì possono venire le risorse per sostenere un Paese in crisi o, in casi estremi, per finanziare il fallimento di una banca secondo le procedure europee. Ma nessun governo del Nord vuole rinunciare a decidere tutto solo all’unanimità, anche fra i piccoli, per poter imporre le proprie condizioni. Così si procede nella sfiducia verso un accordo che non promette affatto di produrre istituzioni dell’euro equilibrate e stabili una volta per tutte. E l’Italia, con il suo governo che non c’è, siede al posto del convitato di pietra.