Da una parte c’è il Paese che non corre e che in base alle previsioni di primavera della Commissione europea si trova in fondo alla classifica tra i 28 Stati Ue per crescita, occupazione e investimenti. Dall’altra ci sono i risultati brillanti delle blue chip, le aziende quotate al Ftse Mib, che quest’anno distribuiranno dividendi per circa 19 miliardi (relativi al 2018). A queste si affiancano i «champions», le multinazionali tascabili, spesso non quotate, con i fatturati trainati dall’eccellenza e dall’export. Nel 2018 il dato complessivo delle nostre esportazioni è stato di circa 563 miliardi. È il paradosso del made in Italy.
Le trimestrali di ieri hanno confermato l’andamento dello scorso anno. Il risultato netto di Generali, ad esempio, è cresciuto del 9,4%, l’utile di Ferrari del 22% e quello di Piaggio del 97,7%. Come sempre è una questione di numeri. Le imprese in Italia sono oltre 4 milioni e danno lavoro a circa 16 milioni e 700 mila persone (dati Istat). Se si considerano l’industria e i servizi, la maggioranza sono imprese di piccolissima dimensione (fino a 9 addetti), mentre le grandi, quelle con oltre 250 dipendenti, sono solo lo 0,1% del totale e assorbono il 20,6% dell’occupazione. «In Italia la relazione tra Borsa ed economia non è forte come in altri Paesi. Le aziende quotate sono ancora poche», osserva Francesco Daveri, professore di Macroeconomia della Sda Bocconi, che aggiunge: «Queste aziende non sono abbastanza per poter fare Pil. Di sicuro però danno soddisfazione ai pochi che comprano le azioni, perché distribuiscono dividendi soddisfacenti».
La maggior parte delle nostre imprese è «bancocentrica», dipende dagli istituti di credito per finanziarsi. Le imprese migliori, a prescindere dalle dimensioni, sono contese dalle banche, ma sono anche quelle che ne hanno meno bisogno perché possono permettersi di ricorrere ad altre forme di finanziamento, magari emettendo obbligazioni o quotandosi. «Le piccole, invece, fanno fatica a stare in piedi — continua Daveri —. Le grandi hanno la capacità e la forza di diversificare i mercati e i prodotti mentre le piccole sono spesso iper specializzate con una mono committenza, che le rende più vulnerabili. La maggioranza delle nostre imprese sconta la piccola dimensione e l’incapacità di diventare grande».
Una situazione che la politica non aiuta a combattere. «Gli ultimi provvedimenti che hanno introdotto facilitazioni fiscali per le aziende sotto i 65 mila euro — conclude Daveri — non fanno altro che facilitare le aziende piccole. La riforma fiscale premia i piccoli che restano piccoli. Invece lo Stato dovrebbe stare loro vicino ma anche incoraggiarli a diventare grandi. Da questo punto di vista era meglio l’Ace che dava dei benefici alle aziende se reinvestivano. Bisognerebbe scommettere creando isole di eccellenza, attorno alle quali si svilupperebbe poi l’indotto. Se aiuti tanti piccoli avrai il loro voto, ma il Pil non cresce».