Via via che tutti noi impariamo a conoscere la cultura economica del neo-ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico siamo costretti ad arrenderci all’evidenza. Luigi Di Maio è animato da un radicato pregiudizio nei confronti del mercato e dell’impresa. C’è nella raffigurazione che fa della vita economica un’idea decisamente pessimistica, l’imprenditore non si muove per creare ricchezza e lavoro, ma per appropriarsi indebitamente di risorse che non sono sue. Si tratti di incentivi pubblici o del frutto del lavoro dei suoi dipendenti il proprietario si rivela nel Di Maiopensiero un «prenditore».
Sarà interessante tentare di capire quale sia il retroterra culturale di questa visione e probabilmente lo capiremo strada facendo. Ci sono sicuramente suggestioni della sinistra novecentesca più chiusa e contraria al mercato, ci troveremo anche accenti ed echi della decrescita felice alla Latouche e tanto altro. Quello che emerge per ora è un mix che non può che preoccupare. Il ministro non conosce l’economia reale, i suoi movimenti, le sue contraddizioni. Non vede il mercato come un campo di gioco—tutto sommato il migliore che si conosca— nel quale i comportamenti del vari giocatori si muovono in parte con una logica di cooperazione, in parte in base a principi di sana concorrenza e nel quale comunque hanno piena legittimità i conflitti. La democrazia economica sta dentro questa dialettica e invece per Di Maio la diade è solo colpa punizione.
La colpa è sempre a carico del rischio di impresa e della sua sete di profitto, la punizione è l’alfa e l’omega dell’azione della politica che non ha la responsabilità di darsi una visione e di interagire con i soggetti dell’economia reale ma più prosaicamente deve solo «vendicare» i lavoratori degli abusi commessi dal mercato. Questa interpretazione l’abbiamo intravista per la prima volta nella conduzione del taralo dei rider, l’abbiamo inquadrata con maggiore nettezza nel caso delle norme anti-delocalizzazioni e più in generale in tutti gli interventi per il Decreto Dignità. E poi ancora nella durissima polemica contro le banche prima e versus la Confindustria dopo. Non è un caso che Di Maio per inscenare i suoi assolo scelga sempre le situazioni estreme: un piccolo imprenditore perseguitato dall’usura o un forgotten man da contrapporre all’establishment. Il guaio però è che l’economia reale italiana dell’anno di grazia 2oi8 non ha bisogno di un piccolo Brecht, ma di ministri competenti. Le vendette non aumentano il Pil.