È doveroso ma anche troppo facile scandalizzarsi di quanto in uno studio televisivo Rai è uscito dalla bocca di due giovani «neomelodici», alias cantanti meridionali di vastissimo successo specializzati in moderne canzoni di malavita. I quali, come si sa, in perfetta coerenza con i testi delle loro canzoni, in cui si esaltano uomini e gesta della delinquenza spesso sconfinando nella vera e propria apologia di reato, se ne sono usciti con espressioni di sostanziale dileggio nei confronti di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. «Queste persone che hanno fatto queste scelte di vita sanno le conseguenze — ha sentenziato uno dei due teppisti canori —, come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro».
Una volta conosciute, simili parole — a quel che pare debolmente redarguite dal conduttore della trasmissione — hanno suscitato l’abituale indignazione stentorea dell’Italia ufficiale. Con l’inevitabile corredo di rampogne alla Rai, scuse, promesse di essere più «attenti» in futuro, annuncio di eventuali sanzioni e così via seguitando con l’aria fritta di sempre. Nessuno però si è fatto la domanda più ovvia: come mai «Scarface» e «Tritolo» (questi i leggiadri soprannomi dei due «neomelodici») hanno in tutto il Mezzogiorno il successo strepitoso che hanno? E dunque che razza di società è quella dove accade una cosa simile, dove si festeggiano nozze, battesimi e santi patroni inneggiando alle rivoltellate, agli uomini d’onore e ai morti ammazzati?
L a risposta la conosciamo: è la società del Sud attuale. La società della disgregazione e dell’abbandono, dove lo sperpero e la malversazione aggravano l’ormai congenita inadeguatezza delle risorse. È la società delle opere pubbliche lasciate a metà, della frequenza scolastica massicciamente elusa, dell’industrializzazione troppo spesso fallita, delle amministrazioni locali in mano all’incapacità o al malaffare, dell’umiliante anabasi sanitaria al Nord, dei centri urbani sconvolti e delle periferie invivibili, del voto di scambio, del trasformismo politico come prassi. È la società dove sotto un’apparente normalità dai toni magari spensierati, com’è nel suo carattere antico, serpeggia una sconsolatezza triste, una frustrazione mortificata, un pervadente sentimento di continua inadeguatezza, fatte apposta per spegnere iniziative, per logorare energie e speranze.
Sembriamo sapere così bene che cosa è il Mezzogiorno che da tempo, paradossalmente, non vogliamo però saperne più nulla. Sono anni e anni che il resto del Paese ha cessato di occuparsene. Il Sud è scomparso dall’agenda politica di qualsiasi partito così come dall’informazione. Nessuno più ha voglia di interessarsi ai suoi problemi. La sua condizione drammatica non fa più notizia se non per qualche clamoroso fatto di sangue. Sicché se un vero rimprovero va mosso alla Rai non è quello di aver dato casualmente voce alle volgarità di due sciagurati giovinastri, bensì è quello di essersi uniformata da anni all’andazzo generale lasciando che di un intero pezzo d’Italia si occupassero solo le scialbe cronache della sue sedi regionali, rivolte, come in tutta la Penisola, unicamente a illustrare virtù e benemerenze dei cacicchi locali.
«Scarface» e «Tritolo» fanno notizia proprio perché rivelano ciò che non sappiamo ma che avremmo dovuto sapere: indoviniamo che attraverso le loro parole impudiche è l’intero degrado in cui nella nostra indifferenza è sprofondato un terzo del Paese che parla e c’interpella.
Perché comunque e a dispetto di tutto, il Sud esiste e sta lì. E l’Italia deve decidere una volta per tutte che cosa vuole farci, perché forse non ha davvero capito che cosa significa abbandonarlo a se stesso. Il Sud sta lì con la mole della sua arretratezza ma anche con le sue sparse oasi di sviluppo talora di altissima qualità tecnologica. Con il suo mercato di consumatori non proprio indifferente per tanta industria del Nord, e con i suoi milioni di cittadini elettori che possono decidere da chi e come deve essere governato il Paese. Sta lì infine — e principalmente — con il rilievo della sua posizione geografica immersa nel Mediterraneo. Esso dunque ricorda che per l’Italia decidere che cosa fare del Mezzogiorno significa decidere per ciò stesso che cosa fare del Mediterraneo. Cioè della sua proiezione naturale in quel mare e verso i soli teatri — i Balcani, l’Africa e il Levante — prospicienti su quelle acque e dove essa può contare qualcosa. O questo ormai non vuol dire nulla dal momento che abbiamo deciso (non so chi né quando) che il nostro futuro si gioca solamente tra Berlino e Bruxelles, al massimo con un occhio a Pechino?
Un’Italia senza il Sud va ineluttabilmente incontro a una drammatica perdita di rango destinata a riflettersi pesantemente anche a nord del Garigliano: come diceva Gaetano Salvemini, essa diviene solo «un Belgio più grande» (sia detto con tutto il rispetto per il Belgio). Non si tratta solo di questo però. C’è di peggio. Infatti, il resto dell’Italia può benissimo disinteressarsi del Mezzogiorno, fare come se non ci fosse: il fatto è che in ogni caso è comunque il Mezzogiorno che dimostra di non avere intenzione di disinteressarsi del resto d’Italia. Lo sta facendo da anni trapiantando nel cuore dell’Emilia-Romagna, della Lombardia, del Veneto, nel cuore dell’opulento Nord, le succursali delle sue potenti organizzazioni criminali. Allargandone sempre più il dominio, erodendo il tessuto civile e amministrativo di quelle regioni, dei suoi governi locali, in certo senso letteral-mente mangiandosele.
A suo modo è una sorta di vendetta per il troppo lungo oblio. Alla quale non c’è che una risposta: ricominciare a occuparsi di quella parte decisiva del nostro Paese. Con intelligenza e con passione; non con indulgenza ma con generosità: perché alla fine è di noi tutti che si tratta .
La risposta la conosciamo: è la società del Sud attuale. La società della disgregazione e dell’abbandono, dove lo sperpero e la malversazione aggravano l’ormai congenita inadeguatezza delle risorse. È la società delle opere pubbliche lasciate a metà, della frequenza scolastica massicciamente elusa, dell’industrializzazione troppo spesso fallita, delle amministrazioni locali in mano all’incapacità o al malaffare, dell’umiliante anabasi sanitaria al Nord, dei centri urbani sconvolti e delle periferie invivibili, del voto di scambio, del trasformismo politico come prassi. È la società dove sotto un’apparente normalità dai toni magari spensierati, com’è nel suo carattere antico, serpeggia una sconsolatezza triste, una frustrazione mortificata, un pervadente sentimento di continua inadeguatezza, fatte apposta per spegnere iniziative, per logorare energie e speranze.
Sembriamo sapere così bene che cosa è il Mezzogiorno che da tempo, paradossalmente, non vogliamo però saperne più nulla. Sono anni e anni che il resto del Paese ha cessato di occuparsene. Il Sud è scomparso dall’agenda politica di qualsiasi partito così come dall’informazione. Nessuno più ha voglia di interessarsi ai suoi problemi. La sua condizione drammatica non fa più notizia se non per qualche clamoroso fatto di sangue. Sicché se un vero rimprovero va mosso alla Rai non è quello di aver dato casualmente voce alle volgarità di due sciagurati giovinastri, bensì è quello di essersi uniformata da anni all’andazzo generale lasciando che di un intero pezzo d’Italia si occupassero solo le scialbe cronache della sue sedi regionali, rivolte, come in tutta la Penisola, unicamente a illustrare virtù e benemerenze dei cacicchi locali.
«Scarface» e «Tritolo» fanno notizia proprio perché rivelano ciò che non sappiamo ma che avremmo dovuto sapere: indoviniamo che attraverso le loro parole impudiche è l’intero degrado in cui nella nostra indifferenza è sprofondato un terzo del Paese che parla e c’interpella.
Perché comunque e a dispetto di tutto, il Sud esiste e sta lì. E l’Italia deve decidere una volta per tutte che cosa vuole farci, perché forse non ha davvero capito che cosa significa abbandonarlo a se stesso. Il Sud sta lì con la mole della sua arretratezza ma anche con le sue sparse oasi di sviluppo talora di altissima qualità tecnologica. Con il suo mercato di consumatori non proprio indifferente per tanta industria del Nord, e con i suoi milioni di cittadini elettori che possono decidere da chi e come deve essere governato il Paese. Sta lì infine — e principalmente — con il rilievo della sua posizione geografica immersa nel Mediterraneo. Esso dunque ricorda che per l’Italia decidere che cosa fare del Mezzogiorno significa decidere per ciò stesso che cosa fare del Mediterraneo. Cioè della sua proiezione naturale in quel mare e verso i soli teatri — i Balcani, l’Africa e il Levante — prospicienti su quelle acque e dove essa può contare qualcosa. O questo ormai non vuol dire nulla dal momento che abbiamo deciso (non so chi né quando) che il nostro futuro si gioca solamente tra Berlino e Bruxelles, al massimo con un occhio a Pechino?
Un’Italia senza il Sud va ineluttabilmente incontro a una drammatica perdita di rango destinata a riflettersi pesantemente anche a nord del Garigliano: come diceva Gaetano Salvemini, essa diviene solo «un Belgio più grande» (sia detto con tutto il rispetto per il Belgio). Non si tratta solo di questo però. C’è di peggio. Infatti, il resto dell’Italia può benissimo disinteressarsi del Mezzogiorno, fare come se non ci fosse: il fatto è che in ogni caso è comunque il Mezzogiorno che dimostra di non avere intenzione di disinteressarsi del resto d’Italia. Lo sta facendo da anni trapiantando nel cuore dell’Emilia-Romagna, della Lombardia, del Veneto, nel cuore dell’opulento Nord, le succursali delle sue potenti organizzazioni criminali. Allargandone sempre più il dominio, erodendo il tessuto civile e amministrativo di quelle regioni, dei suoi governi locali, in certo senso letteral-mente mangiandosele.
A suo modo è una sorta di vendetta per il troppo lungo oblio. Alla quale non c’è che una risposta: ricominciare a occuparsi di quella parte decisiva del nostro Paese. Con intelligenza e con passione; non con indulgenza ma con generosità: perché alla fine è di noi tutti che si tratta .