Dopo quello di Lucio Dalla, è il 4 marzo più celebre della storia d’Italia.Paragonabile al 18 aprile (1948) e al 27 marzo (1994) per importanza elettorale. Appena un anno fa crollavano nelle urne i due pilastri della Seconda Repubblica, il centrodestra a guida Berlusconi e il centrosinistra in assetto variabile. Il vuoto fu riempito. Dodici mesi dopo sono ancora Lega e Cinque Stelle a dominare la scena. Ma a parti invertite. E già si riparla di elezioni. Forse un giorno quest’anno finirà nei libri di storia. Potrebbero scriverne più o meno questo.
Dopo il voto, non c’era maggioranza. Se non l’unione delle due minoranze vincenti. I giovani Di Maio e Salvini non vedevano l’ora di liberarsi dei padri (Grillo e Berlusconi). Così, non potendo scrivere un programma comune, scrissero un contratto di governo. E non potendo scegliere un primo ministro, scelsero l’avvocato Conte, che per l’occasione si rinominò «avvocato del popolo». Tutto rischiò di saltare per Savona. Indicato al Tesoro per spaventare l’Europa, respinto da Mattarella perché spaventava l’Europa, finì a fare il ministro per l’Europa. La sua presenza era così essenziale che è durato al governo meno di un anno, ma ha fatto in tempo a far comprare al ministero trecento copie del suo libro. Ora è alla Consob. L’unico che lo rimpiange è Cottarelli: grazie allo scontro su Savona fu primo ministro per un giorno. Poi Di Maio e Salvini cedettero, il governo nacque, e lui lasciò il Quirinale portandosi il trolley con cui era arrivato. Della resistenza all’Europa è rimasto poco. Perfino la Le Pen ora non vuole più uscirne. In compenso abbiamo litigato con la Francia: per la prima volta dal 1940, ha ritirato l’ambasciatore.
Seppure un anno dopo il voto, le due principali promesse della campagna elettorale stanno per essere mantenute. Tra tre giorni si aprono le domande per il reddito di cittadinanza, che verrà erogato a partire dal 27 aprile. Dal primo aprile (non è uno scherzo) i lavoratori privati potranno andare in pensione a 62 anni e con 38 anni di contributi (i pubblici dovranno aspettare agosto). Divisi al governo, dove ormai approvano solo proroghe di trattati internazionali (quasi l’80% del lavoro delle Camere a gennaio), Cinquestelle e leghisti agiscono invece compatti in Parlamento. Al novero delle cose fatte va aggiunto a luglio il decreto Dignità (pensato per la crescita, ha irrigidito il mercato del lavoro in un periodo di stagnazione e recessione, non una buona idea); a settembre il decreto Sicurezza voluto da Salvini (molto popolare, qui il dissenso interno ai Cinquestelle ha prodotto un paio di espulsioni e la polemica del presidente Fico); a dicembre la legge cosiddetta «spazzacorrotti», storica bandiera grillina; la recente approvazione in un ramo del Parlamento del referendum propositivo (cavallo di Troia della democrazia plebiscitaria, o diretta, dipende dai punti di vista).
Manca la flat tax, direte voi. È vero. Il massiccio taglio delle tasse, la rivoluzione del sistema fiscale, non c’è stata; e molto probabilmente non ci sarà neanche l’anno prossimo. Il governo gialloverde ha cozzato su due scogli. Il primo è il debito. A fine settembre Di Maio sale sul balcone (non a piazza Venezia, quello non è più agibile, a Palazzo Chigi) e annuncia tra gli evviva che l’Italia farà un sacco di deficit, il 2,4%. A novembre la Commissione europea respinge il bilancio e minaccia la procedura d’infrazione. A dicembre Conte incontra Juncker e firma la resa. Il deficit scende al 2% (un colpo di genio della propaganda lo fisserà al 2,04%, nella speranza che agli elettori sfugga la differenza). Tutti i progetti stringono la cinghia, reddito e quota 100 compresi. Il secondo iceberg è la grande gelata dell’economia. L’Istat certifica due trimestri di decrescita poco felice: Pil sotto zero. Bruxelles prevede lo 0,2 per il 2019. L’economia si è piantata. Siamo il fanalino di coda dell’Europa. Tutti gli altri, anche i peggiori, sono sopra l’1. E la manovra del governo ci ha messo del suo, prima facendo salire lo spread durante il braccio di ferro perdente con la Commissione, e poi con l’aumento di spesa pubblica per sussidi e pensioni. L’economia diventa il vero tallone d’Achille del governo, e la sua bomba a orologeria.
L’alta velocità dei primi mesi, quando tutto sembrava possibile e facile, si è così schiantata, ironia della sorte, proprio sul Treno ad Alta Velocità, detto Tav. Gli unici a non volerlo sono i Cinquestelle. Salvini e i suoi governatori del Nord lo bramano, siamo vincolati a un trattato internazionale con la Francia, gli italiani dicono nei sondaggi di essere favorevoli. Ma quel tunnel in Val di Susa è diventato il simbolo della verginità del Movimento, che Di Maio non sembra avere la forza di violare, come pure ha già fatto con il Tap in Puglia e con l’Ilva a Taranto. La tensione che si sta accumulando nel governo su questa vicenda è esplosiva, e ancora non si vede una luce in fondo al tunnel. Un’altra volta Di Maio e Salvini erano arrivati ai ferri corti, e anche allora per una questione di verginità del M5S: quando il leader pentastellato annunciò da Vespa che avrebbe denunciato alla Procura una falsificazione del decreto sul condono da lui stesso approvato in Consiglio dei ministri. Una «manina» — protestò — lo aveva cambiato. Salvini replicò che Di Maio, in qualità di verbalizzatore della riunione, l’aveva letto e firmato. Di gran lunga il momento più comico dell’anno. Finito, come molti altri, con un compromesso. Sulla Tav, però, sarà difficile cavarsela con una «manina».
La vicenda della Diciotti, nave militare italiana cui in agosto è stato rifiutato l’approdo in un porto italiano perché aveva imbarcato 177 migranti, ha segnato il massimo di tensione internazionale e il massimo della popolarità di Salvini. Oggi la sua Lega, in gran parte per la gestione dei flussi migratori, ma anche per un antico debole per l’uomo forte, sfiora nei sondaggi il 36%. I Cinque Stelle invece sembrano in forte calo, ben lontani dal 32% delle Politiche. In più hanno perso in Molise, Friuli, Abruzzo, Sardegna, dove invece ha sempre vinto uno strano centrodestra, che Salvini guida ma rifiuta come alleanza politica. La forza del secondo Matteo si è vista perfino nel voto sulla piattaforma Rousseau: i Cinque Stelle lo salveranno da un processo per sequestro di persona. Tutti prevedono che le Europee saranno un trionfo per la Lega e un tonfo per Di Maio. Nessuno sa prevedere che cosa accadrà dopo.
Domattina, esattamente un anno dopo la Caporetto elettorale, il Pd avrà un segretario. Un anno per riprendersi dallo choc è davvero tanto. Per un anno l’opposizione è stata senza un leader (non che Renzi non si sia visto, impossibile non vederlo, ma ormai fa documentari e libri). L’altra opposizione, quella di centrodestra, ha appena scelto il suo leader alle Europee: si chiama Berlusconi. Se si considera lo stato degli avversari, si comprende pure perché il governo Conte resta più popolare di quanto meriterebbe. I rapporti di forza tra le due componenti si sono ribaltati, è vero, ma la somma di Lega e M5S è maggiore di un anno fa, e il premier non perde consenso. Magari i singoli provvedimenti sono criticati (il reddito di cittadinanza e lo stop alla Tav hanno più contrari che favorevoli); però alla fine la maggioranza sta con il governo perché al momento non c’è alternativa. Dopo 4 marzo 1943 , Lucio Dalla scrisse L’anno che verrà . Da domani comincia.