Parte da lontano l’ultimo libro di Giuseppe Berta per aiutarci a svelare “L’enigma dell’imprenditore e il destino dell’impresa” (Il Mulino). Dai Buddenbrook di Thomas Mann. Scavando nell’intreccio di piattaforme antiche, da città anseatiche nella globalizzazione di allora, con una nascente borghesia adeguata ai tempi e con la storia del suo declino. Berta segue il farsi della borghesia attraverso la storia economica di Max Weber che traccia il percorso del capitalismo occidentale nell’organizzazione imprenditoriale del lavoro che «rivela un interesse predominate per le forme culturali che fanno da involucro all’imprenditorialità, confluendo nella definizione del borghese imprenditore».
Affronta poi, per dirla con Gramsci, il tema americanismo e fordismo.Evidenziando lo iato tra la visione culturale dell’impresa di fronte all’innovazione in Schumpeter e Taylor. Divisi dal valutare quanto pesi l’intreccio tra innovazione, economia e società e quanto pesi il processo management, tecnocrazia e spersonalizzazione nel fordismo. Temi che Berta ha ben raccontato in altri lavori sul fordismo italico nel suo nord-ovest sul destino dell’impresa tra il fordismo dolce di Adriano Olivetti e il fordismo hard di Valletta.
Oggi, nell’epoca del “capitalismo delle piattaforme”di figure imprenditoriali come Steve Jobs e Mark Zuckerberg la questione torna ad essere centrale nell’era dei “padroni degli algoritmi” e di un capitalismo delle reti in un’economia che più che scambiare con la società, si alimenta e dipende dal nostro fare società e dal nostro lavorare comunicando. Qui sta l’enigma dell’imprenditore del capitalismo delle reti svelato nell’ultimo capitolo su tecnologia, imprenditorialità, futuro. Futuro che interroga sia su “Che fine ha fatto la borghesia” (Bonomi, Cacciari, De Rita) sia su “Che fine ha fatto il capitalismo italiano” (Berta 2016).
Non me ne voglia Berta se interagendo con il suo passo da storico più che guardare ad Amazon, racconto una storia che rimanda ai carciofi di Policoro. Ritrovando in questo microcosmo tracce di un percorso olivettiano che rimanda al nostro capitalismo di territorio e di medie imprese che competono nell’epoca delle piattaforme. Certo tecnologiche e da Industria 4.0, ma che partono per farsi “borghese imprenditore” dallo scheletro contadino, dal mutualismo e dalla cooperazione.
Microstorie emblematiche del nostro capitalismo intermedio capace di incunearsi nell’agone internazionale. Infatti la metafora dei carciofi di Policoro non la si capirebbe se non partendo da Cesena dove nel 1967, 11 produttori decidono di unirsi in una cooperativa ortofrutticola che si evolve in un consorzio affrontando il nodo della surgelazione per allargare il mercato e poi nel 1976 si costruisce lo stabilimento che inizia la sua attività nell’era dei surgelati. Nel 1978 nasce Orogel come società di produzione, vendita e distribuzione di prodotti surgelati. Avendo subito chiaro che l’innovazione di prodotto e di processo doveva tenere assieme le cooperative agricole, i centri di raccolta con le due parole chiave: prossimità del fresco e simultaneità della commercializzazione e del surgelamento che rimanda al tema della logistica. È del 1987 il primo grande magazzino automatico a – 40° e l’introduzione nel processo produttivo di strumenti informatici per la produzione di qualità. È su questo terreno della logistica, a proposito di piattaforme che gli anni 2000 inducono cambiamenti epocali.
Ormai i supermercati non fanno più magazzino riforniti dalle catene della distribuzione organizzata con le loro piattaforme. Oggi nel salto d’epoca Orogel con investimenti vicini ai 100 milioni di euro da Industria 5.0, si propone come una piccola Amazon della filiera fresco, frutta, surgelati con logiche da green economy investendo in sostenibilità ambientale e da economia circolare con imballaggi in cartone e plastica riciclabili. Massimo di innovazione nelle piattaforme con radicamento territoriale promuovendo cooperative agricole, 18 centri di ritiro, stabilimenti produttivi a Cesena, a Ficarolo nel basso Veneto e a Policoro in Basilicata dove, a proposito di km 0, si coltivano e lavorano tonnellate di carciofi di prossimità eliminando totalmente l’importazione dei carciofi surgelati di provenienza cilena.
Ascoltando il racconto di Bruno Piraccini su questi cinquant’anni d’impresa che viene dalla terra passando per la cooperazione fino ad arrivare alle piattaforme logistiche da Industria 4.0, vien da evocare il sogno del rapporto tra fabbrica e territorio di Adriano Olivetti. Nel caso di Orogel è la terra, l’agricoltura che si è fatta fabbrica con tanto di green economy in agricoltura e welfare aziendale dentro le mura. Si fa social housing per le emergenze famigliari, doposcuola in collaborazione con le parrocchie perché 800 dipendenti sono donne e durante la crisi si è intervenuti con prestiti al personale a tasso zero per un anno sui 5.000 euro. Il 14% dei dipendenti sono immigrati, dentro le mura l’integrazione socioeconomica è buona anche se c’è molto da lavorare sull’integrazione culturale avendo Orogel una filiera di comando e di lavorazione molto al femminile e i mussulmani uomini a volte fanno fatica ad obbedire alle donne. Così come tra le donne mussulmane a volte ci sono piccoli gruppi che tendono a fare gruppo chiuso soprattutto nelle feste aziendali.
L’impresa investe in una rete, Romagna Solidale, per lavorare socialmente perché non basta il welfare aziendale, ma occorre lavorare fuori dalle mura sul territorio. Certo è una storia d’impresa di successo vicina ai 300 milioni di fatturato, con 3.000 dipendenti che diventano 6.000 nella rete delle cooperative territoriali, lontana dall’epopea dei Buddenbrook, ma vi ritrovo tracce di borghesi imprenditori e di piattaforme che vanno nel mondo mantenendo l’empatia e la coesione necessarie tra economia e società. Una storia che dà speranza e risponde in parte all’enigma del libro di Berta sul destino del capitalismo italiano.