Le parole del presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, «deluso» dai recenti provvedimenti del Governo, testimoniano la sorpresa e il “nervosismo” del mondo delle imprese a fronte di un nuovo atteggiamento della politica.
Gli imprenditori italiani hanno preso consapevolezza che il clima è mutato. Hanno scoperto che la politica non si appassiona granché ai successi ottenuti da tante medie imprese sui mercati internazionali né si entusiasma per le opportunità di lavoro offerte da un made in Italy che ha saputo rinnovarsi profondamente. Mentre il Governo si concentra a fasi alterne prima sull’Ilva e poi su Foodora, l’unico soggetto assente dal dibattito è quella impresa manifatturiera che ha consentito il rilancio del Paese dopo la crisi di dieci anni fa. Che una politica impegnata a gestire il malcontento di fasce della popolazione escluse dalla ripresa non si interessi ai campioni del made in Italy può anche essere comprensibile.Colpisce, invece, che parte dell’opinione pubblica – soprattutto al Nord – non esprima una critica esplicita verso provvedimenti legislativi in contrasto con le richieste del mondo imprenditoriale. Una ragione di questo limitato sostegno alla causa delle imprese è legata alle caratteristiche dei processi che hanno segnato la rapida riorganizzazione di tante aziende italiane. Il decennio che ci lasciamo alle spalle ha coinciso con una fase di razionalizzazione dei processi produttivi e con una revisione dei rapporti di fornitura che hanno allentato i legami con le comunità territoriali di riferimento. Questo percorso di «managerializzazione» delle medie imprese leader – gran parte delle quali eredi di una lunga tradizione distrettuale – ha coinciso con un impressionante sforzo di estroflessione sui mercati internazionali e con una minore osmosi rispetto alla vita della comunità locale. Molti imprenditori del Nord Italia oggi conoscono bene grandi metropoli come Shanghai e New York, un po’ meno le condizioni delle scuole della loro provincia.
Questa tendenza a ridurre i legami con il territorio, unita a una diffidenza storica degli imprenditori verso i media, ha contribuito a far percepire queste realtà più come la somma di tante eccellenze fortunate che come un modello di crescita estendibile al Paese nel suo complesso. I primi mesi di Governo segnalano la necessità di invertire rapidamente la rotta. Ne va del futuro della nostra economia. Il problema non è solo il rilancio della Tav fra Brescia e Padova o la riconfigurazione dei contratti a termine. Le contraddizioni emerse in queste settimane testimoniano dell’incompatibilità fra i valori fondanti del miglior made in Italy e tante scelte dell’attuale maggioranza. Se l’Italia vuole crescere davvero nel comparto della meccatronica o della farmaceutica è difficile accettare scelte politiche che leghino il nome del nostro Paese a posizioni apertamente antiscientifiche. Se vogliamo proporre alla comunità internazionale la bellezza della moda e dell’arredo italiani, l’immagine di un Paese percepito come chiuso in se stesso non aiuterà certamente.
Per uscire dall’impasse, il «quarto capitalismo» italiano, il capitalismo delle medie imprese leader che ha trainato l’export e la ripresa in questi anni, è chiamato a rilanciare la sua immagine a partire da nuovi legami con le comunità di riferimento. Le imprese devono investire sulla qualità della vita e sull’attrattività dei territori. Non si tratta di riproporre un’idea generica di «restituzione» che spesso si associa alle pratiche di Corporate Social Responsability. Si tratta piuttosto di contribuire a promuovere un territorio per renderlo più vivace e competitivo, di aumentare la sua capacità di trattenere i giovani e di attirare talento imprenditoriale dall’estero.
Le priorità per una agenda a medio termine sono presto identificate. L’investimento nelle scuole, in particolare nella formazione tecnica, costituisce uno dei capitoli più importanti di questo impegno a livello locale. Difficile parlare di mancanza di vocazioni nella manifattura se manca un rapporto con i giovani e con la migliore tradizione del saper fare italiano. La scuola di sartoria aperta da Brunello Cucinelli a Solomeo è un esempio di quello che tante altre realtà italiane potrebbero fare per rilanciare la formazione e l’occupazione nelle proprie comunità di riferimento.
Altro tema è il rapporto fra cultura e manifattura. Molte imprese leader del made in Italy giustificano un differenziale di prezzo rispetto alla concorrenza grazie a un legame esplicito con la cultura italiana e con una tradizione locale. Il rapporto fra cultura e manifattura non è più limitato ai settori della moda e del design, ma riguarda anche comparti tecnologicamente all’avanguardia. I musei di impresa e le fondazioni culturali hanno rappresentato storicamente uno dei principali strumenti per rinnovare e arricchire questa connessione senza necessariamente celebrare l’attività di un unico marchio.
La lista dei progetti su cui si qualifica l’impresa coesiva potrebbe continuare a lungo, dall’investimento in nuove architetture industriali ai progetti per la salvaguardia dell’ambiente, dalla valorizzazione di nuovi legami con il turismo al tema dell’inclusione sociale. Un aspetto, tuttavia, merita di essere sottolineato rispetto alla numerosità e alla dimensione di questi progetti. La somma di tante iniziative, molte delle quali già avviate, rischia di non scalfire una narrazione consolidata. Solo costruendo e esplicitando un progetto Paese attorno alle tante esperienze esistenti e a quelle future, questo nuovo modo di fare impresa diventerà un riferimento significativo per la politica e per l’opinione pubblica in generale.Sulla capacità di costruire un nuovo racconto della manifattura italiana, le associazioni di categoria si giocano una parte importante del loro futuro.