Quella dei Fumagalli di Brugherio era la quarta grande tradizione del made in Italy dopo Borghi-Ignis, Merloni e Zanussi. La prima a passare in mani straniere era stata proprio quest’ultima nell’84 e a poco più di 30 anni il ciclo si è praticamente chiuso. Toccherà agli storici raccontare le «occasioni perdute» di un settore che assieme all’auto ha rappresentato nel ‘900 uno dei punti di forza dell’industria italiana. Ma più che l’ipotesi di creare nel tempo tra alcune delle quattro famiglie un maxi-polo nazionale forse altre sono state le battaglie perse. Innanzitutto nell’innovazione di prodotto, troppo lenta e comunque incapace alla fine di creare nuovo valore e una competizione che non fosse solo centrata sul costo del lavoro.
Per anni abbiamo dovuto assistere a un lenta e inesorabile delocalizzazione delle produzioni verso Est e alla nascita di fatto di un distretto parallelo nell’Alta Slesia, grazie agli incentivi generosi del governo polacco e, per l’appunto, a un costo della manodopera pari a un quarto di quello italiano.
Oggi l’avvento del 4.0 cambia le carte in tavola e risposta l’asse della competizione ma per noi italiani è troppo tardi. Non possiamo più giocare sugli assetti proprietari dobbiamo però tener duro nella qualità del manufacturing e nel presidiare la fascia alta del prodotto più i centri di ricerca.
Quanto ai cinesi di Haier finalmente sono riusciti ad aprirsi un varco dopo il tentativo andato a vuoto con Indesit, per come sono abituati a ragionare faranno di Brugherio l’avamposto per rafforzarsi in Europa (in Polonia ci sono comunque da tempo) ma occorrerà fare attenzione. E’ proprio di questi giorni la notizia di 90 licenziamenti da parte della cinese Wanbao che aveva comprato l’azienda di compressori veneta Acc.