Non potrà più accadere quanto successo una decina di giorni fa a Ischia, dove sei sindaci si sono messi d’accordo per vietare lo sbarco sull’isola ai residenti nel lombardo- veneto. Né sarà permesso ciò che il primo cittadino di Messina ha disposto l’altro ieri, ovvero la chiusura delle scuole d’ogni ordine e grado fino a domani, pur non essendo il suo un comune a rischio infezione.
Nel Paese dei campanili, d’ora in avanti sarà il governo a decidere per tutti: l’emergenza coronavirus val bene il sacrificio della potestà amministrativa. Necessario a evitare il caos che già s’era rischiato con i presidenti di Regione alle prese coi primi casi di Covid-19. A stabilirlo è l’articolo 35 del decreto legge sulle misure a sostegno di famiglie, lavoratori e imprese varato venerdì sera in consiglio dei ministri. “In considerazione della dimensione non esclusivamente locale” dell’epidemia — recita l’ultima versione della norma — “l’adozione di misure di contenimento e gestione dell’emergenza a livello statale preclude l’esercizio dei poteri di ordinanza di carattere contingibile e urgente da parte dei sindaci”. Tradotto: nessuno potrà più fare di testa propria, la catena di comando sarà centralizzata.
Un testo più volte rimaneggiato, sul quale a Palazzo Chigi si è discusso a lungo. Forti erano le perplessità del premier Conte, che temeva l’insurrezione degli amministratori leghisti: «Rischiamo di offrire un ulteriore pretesto di polemica a Salvini ». Ai primi cittadini, commissariati dal governo, viene infatti sfilata la loro arma più potente: la possibilità, prevista dal Tuel, di firmare atti utili a “prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Preoccupazione poi superata dall’escalation di contagi, grazie anche alla mediazione del presidente dell’Anci Antonio Decaro. A sorpresa risultata però sgradita alla sindaca pd di Crema Stefania Bonaldi: «È una grave violazione del potere attribuito ai sindaci, che mai come in questo caso dovrebbe essere rispettato».
Una voce tuttavia isolata. Ieri sul Dpcm «che recepisce e proroga alcune misure già adottate per il contenimento e la gestione dell’emergenza e ne introduce ulteriori, volte a disciplinare in modo unitario il quadro degli interventi e a garantire uniformità su tutto il territorio nazionale», il plauso dei governatori è stato unanime. Sebbene restituisca la foto di un’Italia divisa in tre.
La zona rossa — ovvero i dieci comuni lombardi individuati come focolaio dell’epidemia, più il veneto Vo’ — dove restano in vigore le restrizioni più pesanti: dalla quarantena al divieto di allontanamento, dallo stop a manifestazioni ed eventi fino alla chiusura di scuole, attività commerciali e servizi pubblici. La zona gialla che interessa tre regioni (Emilia Romagna, Lombardia, Veneto) e due province (Savona e Pesaro-Urbino), imponendo grossi vincoli: oltre a limitare l’accesso a funivie e cabinovie, consentendo la presenza solo per «un terzo della capienza», le scuole non riprenderanno fino all’8 marzo (come stabilito pure dal Friuli Venezia Giulia); chiese e musei potranno restare aperti a patto di evitare «assembramenti», contingentando gli ingressi; ristoranti e bar serviranno solo «i posti a sedere», rispettando la distanza di «almeno un metro » fra avventori, regola che vale anche per i negozi; per riunioni e incontri dovrà essere privilegiato il collegamento da remoto. Con ulteriori specifiche per quattro province — Bergamo, Lodi, Piacenza e Cremona — dove sabato e domenica verranno chiusi supermercati e centri commerciali. E in Lombardia e nella provincia di Piacenza anche palestre, centri sportivi, piscine.
Per il resto del Paese, ovvero la zona verde, si prevede qualche precauzione in più: chi è entrato in Italia 15 giorni fa dopo aver soggiornato in aree a rischio dovrà comunicarlo alla Asl e sottoporsi a controlli, mentre il lavoro telematico viene esteso a tutti i rapporti subordinati. Nella speranza che l’epidemia rallenti.