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Chi è: Franco Egidio Malerba è il primo italiano a essere stato nello spazio.
Nato il 10 ottobre 1946 a Busalla, vicino Genova, e laureato in Ingegneria elettronica e in Fisica, ha lavorato nella ricerca e nell’industria di alta tecnologia. Nel ‘77 è stato scelto dall’Agenzia Spaziale Europea come uno dei quattro candidati Payload specialist europei per la prima missione Spacelab.
Addestratosi al centro Nasa-JSC di Houston, è però decollato come astronauta dell’Agenzia Spaziale Italiana il 31 luglio ’92 ed è rimasto in orbita 7 giorni, 23 ore e 15 minuti. Eurodeputato dal ‘94 al ’99, ha soprattutto ispirato i lavori del Parlamento sulla politica spaziale e sul programma per la navigazione satellitare.
L’asteroide 9897 Malerba gli deve il nome.
Lo abbiamo incontrato il giorno esatto in cui 24 anni prima, alle 9 e 56, decollava a bordo dello Space Shuttle Atlantis dal John Fitzgerald Kennedy Space Center. Con la missione STS-46 avrebbe raggiunto l’orbita terrestre cosiddetta bassa, in un’era in cui, a solcarla, non c’era nemmeno la Stazione Spaziale Internazionale.
Malerba, quali erano gli obiettivi scientifici principali della missione?
«A bordo dell’Atlantis trasportavamo due carichi utili preminenti: la piattaforma Eureca e il satellite Tethered. Quest’ultimo, anche noto come “satellite a filo” o TSS 1R (da Tethered Satellite System, ndr) era una produzione essenzialmente italiana, nata da un’idea del professor Giuseppe Colombo, con la partecipazione di una notevole platea di nostri scienziati e dell’Alenia Spazio di Torino, che l’aveva realizzata. Gli obiettivi principali della spedizione erano misurare le tensioni e le correnti che si potevano generare dall’interazione del filo in rapido movimento dentro il campo magnetico terrestre – una vera dinamo spaziale – e rendere operativa Eureca, o European Retrievable Carrier».
Una sorta di laboratorio orbitante?
«Più precisamente una piattaforma governata da terra e in larga misura automatica che, una volta messa in orbita, avrebbe permesso una serie di rilevazioni senza il nostro intervento. Il che non implica fosse un’operazione semplice; nello spazio niente lo è».
Vale a dire?
«Che anche solo la messa in orbita fu molto più complessa del previsto: ci fu un’improvvisa presa in carico di Eureca da parte dello European Space Operations Centre di Darmstardt e si scoprì che alcuni comandi, invece di una modifica dell’assetto, avvicinavano la piattaforma allo shuttle, con addirittura il rischio di farli collidere. Fummo costretti a correggere la rotta dell’Atlantis, una manovra imprevista e delicata».
Anche con il Tethered ci furono complicazioni…
«Il satellite era il nostro bebè, l’elemento che più di ogni altro faceva della STS-46 una missione singolare. A differenza di quelle tradizionali, in cui si opera all’interno della navetta – o, come dico scherzando, si rileva se in assenza di peso le rane in laboratorio abbiano continuato a muoversi o preferito prendere il sole –, nel nostro caso si trattava di rilasciare un corpo che sarebbe rimasto collegato all’orbiter attraverso un cordone ombelicale di oltre 20 chilometri. Insomma, c’era una buona dose di imprevedibilità in quello che stavamo facendo. Tanto che solo la trascrizione su carta della parte software della missione aveva lo stesso volume delle missioni Apollo, quelle che nel ’69 avevano portato l’uomo sulla Luna».
«Per un bullone di 6 millimetri di diametro che spuntava dove non avrebbe dovuto e che a un certo punto fece supporre addirittura un’uscita extra-veicolare dei mission specialist Jeffrey Hoffman e Franklin Chang-Diaz, non riuscimmo a svolgere tutto il cavo. Ci fermammo a 227 metri. Soprattutto rischiammo di non ritrarre più il Tethered. Ma con diverse manovre concordate con il mission control e in un’operazione durata ore, tutto si risolse. I dati raccolti, ridimensionati proporzionalmente, confermarono comunque la validità dell’esperimento».
A proposito, quali sono state le applicazioni successive dei vostri esperimenti?
«In sintesi, per quanto riguarda Eureca trasportavamo un’ampia varietà di test, dalla verifica di come un metallo si comporti nell’ambiente spaziale fino a un motore a ioni, di cui dovevamo verificare il funzionamento in circostanze particolari. In quanto al satellite a filo, le intenzioni erano dimostrare che muovendosi a 300 chilometri dalla Terra e a una velocità di circa 27, 28mila chilometri orari, il cavo avrebbe generato una tensione di 5mila Volt. Nonostante i problemi, scienziati e ricercatori scrissero decine di paper su quanto rivelato. Per una consultazione dettagliata, consiglierei il sito della Nasa».
Dei satelliti a filo poi si parlò meno; da specialista del carico utile nel ‘92, oggi quali applicazioni prevedrebbe?
«Una fra le tante: si pensi al viaggio verso Marte e al fatto che gli astronauti, in assenza di peso, si debilitano. Ebbene, perché non riprodurre a bordo dei veicoli spaziali una gravità artificiale, come quella immaginata in 2001: Odissea nello spazio da Stanley Kubrick? Con un sistema a filo, sarebbe semplice da realizzare e per conseguenza anche poco costoso. Si immaginino due masse come la capsula di comando o soggiorno degli astronauti e un modulo di servizio, o anche semplicemente un contrappeso: collegandole con un cavo di qualche centinaio di metri e mettendole in rotazione a una velocità bassa, in modo da non disorientare i passeggeri, si permetterebbe di viaggiare in condizioni di gravità artificiale quasi normali».
A proposito, perché oggi l’uomo deve andare nello spazio?
«Perché le imprese spaziali sono insieme un fatto scientifico, tecnologico, industriale e politico. Se non si sintonizzano tutte e quattro queste componenti, il sistema non funziona. È fondamentale che la comunità scientifica si interessi alle attività spaziali e ne sia coinvolta, in modo da valorizzare la curiosità e le conoscenze che la animano; l’industria, per sua natura votata a evolversi per sopravvivere, delle missioni spaziali non può ignorare le opportunità uniche di innovazione, come anche la possibilità di crearsi un’identità. Su tutto questo domina un altro imperativo, quello economico. È necessario le missioni extraterrestri siano utili: a migliorare la qualità della vita per esempio, oppure a dar lustro internazionale ai Paesi e alle industrie coinvolte; o, ancora, a generare conoscenze che arricchiscano la comunità scientifica. Ovvio che tutti questi obbiettivi si traducano anche in un valore economico. Per questo la politica è basilare, perché visti i rari finanziamenti privati in ambito astronautico, il più delle volte si tratta di investire contributi pubblici, i cui orientamenti devono essere valutati con responsabilità. E con la garanzia che vengano mantenuti nel tempo. Quello spaziale è uno dei contesti in cui si combinano tutti gli elementi elencati in maniera più naturale. E con un’armonia rara».
Qual è il futuro delle missioni spaziali?
«Se si estremizza il ragionamento appena fatto, se cioè si intendono i viaggi spaziali come esperienze utili per innovare la tecnologia, acquisire conoscenze e aprire nuovi orizzonti evolutivi, allora è Marte a lanciare la sfida più convincente, ben più impegnativa in quanto a sforzo di innovazione e invenzione rispetto al ritorno dell’uomo sulla Luna».
Sta escludendo un ritorno in tempi brevi da quelle parti?
«Sebbene ritenga il nostro satellite naturale una piattaforma imprescindibile nel viaggio verso il Pianeta Rosso, credo sia Marte a richiederci le soluzioni più originali. C’è già chi parla di sistemi meccanici auto-riparanti per affrontare i problemi dovuti alla lunghezza del viaggio, chi propone di utilizzare stampanti 3d per costruire cose per strada, o su Marte stesso. C’è la necessità di riutilizzare le risorse disponibili, migliorando tecnologie di riciclaggio di cui abbiamo un bisogno palese anche sulla Terra».
Ha parlato di un viaggio per tappe…
«Proiettarsi nel sistema solare impone fasi intermedie, ognuna con insidie e opportunità: la prima tappa è proprio il nostro satellite, che consente di studiare l’origine del sistema Terra-Luna e ci allena alle sopravvivenze prolungate nello spazio. Sono convinto sarebbe interessante nel breve termine stabilire una stazione orbitante attorno alla Luna senza assumersi il rischio di uno sbarco. La seconda base potrebbe essere il “punto di oscillazione L2″, quella particolare posizione, allineata sulla radiale Terra-Luna a circa un milione e mezzo di chilometri dal nostro Pianeta, che consente a un laboratorio lì collocato di gravitare attorno al Sole e rimanere sempre nel “cono d’ombra” terrestre. La terza tappa di questa scalata sono gli asteroidi, utilizzabili come miniera o come oasi nel deserto cosmico. Impareremo a farne una risorsa. E non è un caso la Nasa abbia lanciato un programma per esplorarli con astronauti: il primo volo con equipaggio, a bordo della nuova multi-ruolo Orion, è previsto per il 2021. L’ultimo campo sarà Marte, l’unico pianeta oltre al nostro che possiamo legittimamente immaginare quale ambiente per un futuro insediamento umano.»
L’“indietreggiamento” delle missioni spaziali dopo la chiusura del progetto Apollo non ha permesso grossi studi sull’esposizione del corpo alle radiazioni. Abbiamo solo i dati rilevati da chi, sulla Luna, ci è andato: 12 persone.
«È vero; c’è una sorta di tappa mancante che credo affronteremo con le missioni Orion la prossima decade e che un viaggio circumlunare permetterebbe di analizzare al meglio. Ritengo legittimo essere pessimisti in merito ai rischi da radiazioni: è vero che gli astronauti negli ultimi 45 anni non sono andati oltre la Iss ed è altresì vero che tutti i satelliti spediti ben oltre la Stazione confermano la pericolosità dei raggi. Mi risulta addirittura si ragioni sulla resilienza degli eventuali candidati ai viaggi interplanetari, facendone quasi un criterio selettivo. Mi sembrano riflessioni fantascientifiche».
Quale pensa sia la sfida più difficile di una missione extraterrestre?
«Essere sicuri di tornare a Terra. Lo dico anche con intento provocatorio, visto che di recente qualcuno, astronauti compresi, ha ipotizzato viaggi senza ritorno. Mi sembra una follia. È qualcosa che contraddirebbe le opportunità accennate prima: la missione su Marte sfoggia molte complessità, ci emoziona anche per questo, perché ci stimola a sviluppare tecnologie d’avanguardia, a usare le procedure di volo migliori, nonché il personale più addestrato a disposizione. Non c’è ragione per rendere la sfida più facile, men che meno attraverso il sacrificio della vita».
E per quanto riguarda la sua esperienza spaziale, qual è il ricordo più vivido?
«La missione per me è stata tutta un film straordinario, con momenti memorabili anche nelle fasi di preparazione. Cadrò comunque nella solita sindrome della vista della Terra di lassù – il “Pale Blue Dot” per dirla come Carl Sagan – perché in effetti è lo spettacolo più bello, straordinario e originale che ci sia dato vedere. Non che il manto stellato sia da meno; guardandolo mi sembrava un foglio nero bucherellato e con una forte luce dall’altra parte, qualcosa di simile a un Presepe che ricordo di aver allestito da bambino».
A dire il vero Richard Feynman, premio Nobel per la Fisica e membro della commissione Rogers istituita per indagare sulla tragedia del Challenger, raccontava ci fosse poco da star sereni sullo Space Shuttle: ne paragonava ogni lancio a una manche di roulette russa. Lei ha mai avuto paura?
«Ho una mia idea sull’argomento: sono certo che l’addestramento alla Nasa serva soprattutto per convincerci, magari in modo ottimistico, che qualsiasi cosa accada, esistono una procedura d’emergenza o una soluzione attuabili con l’aiuto dei compagni e del controllo missione. Una quantità notevole di tempo è dedicata alle cosiddette anomalie, ed è agli astronauti e agli specialisti di missione che viene chiesto di scrivere procedure di recupero da una situazione critica. Mi piace chiamarlo “trialogo”, una collaborazione fra gli istruttori, il controllo e lo spacecraft, che nei simulatori a Houston vede i primi inventarsi i guasti più diversi per testare la risposta coordinata degli altri due, all’oscuro di tutto. Malgrado capiti spesso che la reazione non sia adeguata all’emergenza, si crea una dinamica per cui si crede che in tutti i casi si sarà all’altezza della situazione. Per questo, forse anche con una confidenza eccessiva, non ricordo di aver mai avuto paura nello spazio. E so per certo che nessuno dei miei compagni ne ebbe».
Crede nella possibilità che esista un’intelligenza extraterrestre, magari anche evoluta?
«Abbiamo certezza solo di ciò che vediamo, tocchiamo e sperimentiamo. Mi limito quindi a ricordare che non ci è stato ancora dato di incontrare intelligenze non provenienti dal nostro Pianeta. Qualche volta elucubro un po’ sul tema, dicendo che non credo dovremmo aspettarci astronavi aliene in visita; semmai capteremmo segnali radio o radiotelevisivi, perché questo è il modo più semplice per diffondere messaggi nell’universo. Non è un caso abbiamo il telescopio ad Arecibo, o il progetto SETI, che affrontano con approccio scientifico la questione. Ben altra cosa, invece, è la vita nell’universo, che ritengo non solo possibile, ma probabile: la cerchiamo su Marte, a due passi da noi; figuriamoci se nel resto del cosmo non si è verificata quella coincidenza in grado di sviluppare un sistema capace di riprodursi, comunicare e sfruttare le risorse ambientali».
Esiste una tesi ragionevole che neghi l’esistenza di una intelligenza extraterrestre?
«Se avessimo visitato almeno 2 terzi dell’Universo e non avessimo incontrato vite intelligenti, potremmo fare un’estrapolazione per la frazione rimanente, ma conosciamo solo un infinitesimo di quello che ci circonda. Ogni affermazione definitiva è impossibile».
Crede in Dio?
«Sì. Sono fiducioso esista un aldilà e ci sia modo di ritrovarsi in pace nei campi elisi. Sono convinto scienza e fede non siano conflittuali; la prima aiuta a indagare il come delle cose senza mai fornircene il perché. Che di contro è quello cui può puntare la fede, per quanto ci costringa a qualche sforzo».
Che cosa avrebbe voluto fare da bambino?
«Il ricercatore di rango internazionale; lo so, ero ambizioso. Poi, anche per considerazioni economiche, ho cambiato idea. L’opportunità offertami dall’Agenzia Spaziale Europea era peraltro molto interessante: ho cominciato la mia carriera astronautica non con il Tethered, ma con lo Spacelab, decollato nel 1983, un fatto cui tengo molto perché nella selezione che ci fu fra il ’77 e il ’78, sulle migliaia di candidati da tutta Europa mi classificai fra i 4 finalisti, insieme con un tedesco, un olandese e uno svizzero, quasi fosse una barzelletta. Lo svizzero era Claude Nicollier, che poi avrebbe fatto parte del mio equipaggio, Ulf Merbolt il tedesco e Wubbo Ockels l’olandese. A mio avviso avrebbero dovuto tenerci tutti e quattro, ma Nasa e Ufficio Astronauti, all’epoca tutt’altro che orientati su prospettive internazionali, erano decisi ad addestrarne non più di due. La lettura del dopo mi suggerisce un’ipotesi interessante dal punto di vista geo politico: in quanto italiano ero l’avversario più temibile per il candidato tedesco, che la Germania voleva volasse a tutti costi. Nicollier e Ockels, rappresentando paesi piccoli, la Svizzera, o addirittura satelliti della Germania, l’Olanda, non costituivano un problema. Ecco, fui messo in naftalina».
Guardi che queste cose le scrivo…
«Non c’è da stupirsi del fatto che lo spazio sia anche un ambiente competitivo. Aggiungo che a quei tempi l’Italia viveva una situazione difficile: il ’78 era l’anno del rapimento di Aldo Moro e per una infelice coincidenza il giorno, ad aprile, in cui il consiglio dell’Esa avrebbe deciso quali astronauti inviare a Houston, era lo stesso in cui si cercava il cadavere dell’onorevole nel lago della Duchessa. Non mi stupirei se scoprissi che la poltrona italiana, in quel consiglio, fosse vuota. Le priorità erano ben altre».
Mi pare abbia avuto modo di rifarsi…
«Mi piace pensare di essere saltato sull’ultimo treno».
Come?
«Nel 1989 ci fu un’altra competizione, questa volta indetta dall’Agenzia Spaziale Italiana, con nuovi candidati, fra i quali Umberto Guidoni e, già allora, Paolo Nespoli. La circostanza che credo mi fu favorevole in quell’occasione fu l’intervista finale a San Francisco. Quando arrivammo, con gli altri 6 finalisti italiani, fummo esaminati uno dopo l’altro e ricordo ancora un funzionario della Nasa dirci, papale papale, che i nomi dei selezionati sarebbero stato ufficializzati appena dopo le consultazioni, per evitare – aggiunse – qualche telefonata capace di far cambiare idea a qualcuno. Appunto, lo spazio è arena di molteplici interessi».
Esistono un film o un libro “spaziali” che l’hanno particolarmente impressionata?
«Rimango fedele a 2001: Odissea nello spazio; trovo sia realizzato in modo splendido e ponga interrogativi eterni. E poi ebbi modo, opportunità rara vista la riservatezza del personaggio, di parlare con Arthur C. Clarke, un grande autore».
Ah, sì?
«Certo, avrebbe dovuto collegarsi in diretta per il saluto d’apertura durante una riunione di astronauti in Italia, che in realtà non si riuscì mai a organizzare. Da qualche parte conservo ancora il messaggio d’auguri che registrò. È anche grazie a lui che sono convinto i viaggi spaziali siano la frontiera della nostra conoscenza. Ed è di primaria importanza puntino sempre più in là».
*Wired.it, 20 dicembre 2016