Le ricerche su Google alla parola «respiratori» si sono quintuplicate, negli ultimi giorni. Gli italiani hanno capito rapidamente che quei dispositivi, che vanno sotto il nome tecnico di «ventilatori polmonari», possono diventare la differenza tra la vita e la morte in questa epidemia di coronavirus: non per la gran parte dei contagiati, che non svilupperanno mai sintomi gravi, ma per la piccola minoranza soggetta a complicazioni dell’apparato respiratorio.
In Italia questi macchinari sono a disposizione delle strutture pubbliche — oltre cinquemila posti letto di terapia intensiva — e la dotazione continua a crescere. La settimana scorsa la Lombardia è riuscita a investire in pochi giorni 47 milioni di euro, con un apporto anche dalla Protezione civile, per comprare ancora più macchine salvavita. Altre regioni e la stessa Protezione civile hanno già concluso altre gare d’appalto e collocato ancora più ordini.
Ma basta cercare «mechanical ventilation» nella sezione medicale di Alibaba, il portale cinese di vendite in rete, per capire quale piega stia prendendo la globalizzazione sanitaria nella pandemia del Covid-19. Alibaba ieri sera aveva in offerta in e-commerce, a chiunque fosse disposto a inserire i dati della propria carta di credito, non meno di quaranta diversi modelli di respiratori. Da quelli a un dollaro, per vuotare i magazzini, ai dispositivi da ospedale da 20 mila o 50 dollari a pezzo; ce n’è anche uno fatto a Wuhan, l’epicentro della pandemia, descritto senza traccia d’ironia come un «buon servizio».
L’americana Amazon invece non vende quelle macchine, anche perché nei Paesi avanzati solo le strutture sanitarie possono legalmente comprarle. Solo i medici possono applicarle. Eppure l’impennata dei prezzi su Alibaba, anche di dispositivi magari truffaldini, lascia intravedere la natura di questa nicchia del mercato globale. Fino a pochi giorni fa valeva poco più di due miliardi e cresceva del 7% all’anno. Adesso sta esplodendo: oggetto di una corsa internazionale all’accaparramento dei dispositivi a ossigeno che (per ora) l’Italia sembra poter evitare.
I ventilatori polmonari sono tecnologie avanzate, richiedono investimenti in ricerca massicci e continui, vengono prodotti su scala globale, e sono il recinto di un oligopolio di imprese. Cinque grandi gruppi presidiano metà del mercato mondiale e quasi nessuna grande struttura sanitaria si rifornisce al di fuori dei primi dieci o dodici produttori. Pochi dei loro nomi sono noti fuori da una cerchia di specialisti, ma nelle settimane di Covid-19 questa è diventata un’aristocrazia scelta del capitalismo globale.
Il problema è che nessuna fra queste aziende è in Italia, dove le tante piccole imprese biomedicali hanno sempre prodotto pochi respiratori e ora quasi nessuno. I protagonisti sono Becton, Dickinson and Co. (del New Jersey, fondata nel 1897), l’olandese Philips (del 1891), la svizzera Hamilton Medical (del 1983), Fisher & Paykel (Nuova Zelanda, 1934), la Dräger di Lubecca (1889), la Medtronic di Dublino (1949), General Electric, la londinese Smiths che ha quasi due secoli, la californiana ResMed (1989)e la tedesca Maquet, altra azienda quasi bicentenaria. L’accesso e il successo in questa nicchia della globalizzazione, chiaramente, non s’improvvisa. Le italiane sono rimaste fuori semplicemente perché in gran parte sono aziende troppo piccole per sostenere gli investimenti e le dimensioni degli ordini. Il Sistema sanitario nazionale deve dunque fare affidamento su magazzini esteri, oggi bramati da tutto il mondo, per la sua più grande emergenza da decenni. La corsa dall’Italia è stata così rapida che alcuni dei produttori hanno avuto l’impressione che regioni e Protezione civile fossero in competizione per chi veniva servito prima.
Massimiliano Boggetti, presidente di Confindustria dispositivi medici, in tempo utile ha fatto sì che molti di questi fornitori esteri firmassero (come gli italiani) un impegno a privilegiare gli ordini del sistema pubblico e a non far salire i prezzi in un’emergenza. Niente aste dunque, almeno non in Italia. Ma Boggetti ricorda come questa crisi riveli il carattere strategico dell’industria biomedicale per un Paese. «Senza nazionalizzazioni — osserva — il governo dovrebbe favorire la crescita delle nostre imprese».