L’apertura da parte della Banca d’Italia sulla necessità di rivalutare il rapporto tra costi e benefici della riforma del credito cooperativo, nella forma varata dal governo Renzi, ha scoperchiato un vaso di Pandora. Non è un mistero che le Bcc non abbiano mai digerito l’idea di dover rinunciare in parte all’autonomia e di doversi assoggettare alle decisioni e ai controlli di una capogruppo. Ma alla fine si erano rassegnate al percorso del gruppo unico. Ora che anche la vigilanza, con le parole del direttore generale Salvatore Rossi (si veda Il Sole24 Ore del 9 giugno scorso), ha riconosciuto che il passaggio al modello di vigilanza predisposto dalla Bce per le banche cosiddette “significant” potrebbe rivelarsi estremamente oneroso per il modello di business del credito cooperativo, essenzialmente mutualistico, molte banche del sistema cominciano a confrontarsi apertamente sulla prospettiva di cambiare percorso.
In pratica, molte Bcc di entrambi gruppi e dislocate in varie parti del paese (non solo a Trento) auspicano l’adozione del modello tedesco o austriaco (ma anche delle casse rurali in Spagna) dell’Ips, ovvero un sistema di tutela istituzionale basato su un accordo contrattuale per garantire la liquidità e la solvibilità delle banche partecipanti per la gestione delle crisi, attraverso l’utilizzo di fondi alimentati dalle banche stesse. Va ricordato, a onor del vero, che il sistema si era a lungo cimentato, prima del 2015, sull’ipotesi di adottare il modello Ips, ma lunghi dibattiti e trattative non erano mai approdati a nulla. Finché il governo Renzi, consultando la Banca d’Italia, non ha calato dall’alto la riforma nella modalità del gruppo unico, basato sul patto di coesione e sulle garanzie incrociate. La fretta di allora di accelerare sulle riforme bancarie (prima del credito cooperativo era stata la volta delle banche popolari) era legata anche al negoziato che il governo italiano stava conducendo per ottenere maggiore flessibilità sul deficit pubblico (l’approvazione di riforme strutturali consente più elasticità da parte di Bruxelles sui conti pubblici). Dunque se ora, come ventilato dal premier Giuseppe Conte, si pensa di rimettere mano alla riforma va messo in conto anche un possibile impatto sul bilancio dello Stato.
Al momento quello che l’esecutivo potrebbe fare è adottare un provvedimento – probabilmente un decreto legge – che allunghi i tempi della riforma. Le due maggiori capogruppo, Iccrea e Cassa centrale banca, hanno presentato a fine aprile l’istanza alla Bce per ottenere l’autorizzazione a diventare gruppi bancari; in teoria c’è tempo fino a fine agosto per il via libera ma la vigilanza europea starebbe accelerando l’iter. L’obiettivo del sistema, dunque, è ottenere l’approvazione di una moratoria entro metà luglio per evitare di ricadere subito dopo l’estate nel modello di vigilanza della Bce.
Il rischio di calare sul credito cooperativo quel modello di abito cucito sulle grandi banche è di soffocare da subito il credito alle piccole imprese e alle attività artigianali, settore quest’ultimo che trae il 20% del proprio finanziamento dalle Bcc. E, a cascata, di strozzare il business di queste banche. L’attenzione della Lega, che è promotrice della moratoria, si spiega per questo motivo.
Il credito a questi piccoli imprenditori viene erogato sull’analisi dei comportamenti e sulla capacità di rimborso comprovata da anni di rapporti con le Bcc. Finchè i crediti sono ripagati non assorbono troppo patrimonio. I modelli di rating interni della Bce costringerebbero invece ad accantonamenti più elevati in presenza di debiti bancari superiore a 6 volte il Mol o a debito bancario maggiore della somma tra utile più accantonamenti più ammortamenti. Un artigiano che ha sempre ottenuto l’anticipo dei crediti dalle banche e ha sempre onorato il proprio impegno con la Bcc, ma che chiude con un utile quasi sempre di poche migliaia di euro, con i rating interni molto probabilmente finirebbe classificato tra i crediti più rischiosi. L’alternativa rispetto al modello Ips – che peraltro nel 2015 Bankitalia definiva «una forma di integrazione più debole rispetto al gruppo, che potrebbe rivelarsi non del tutto capace di sostenere le esigenze di ricapitalizzazione delle banche che vi partecipano» – dovrebbe essere la negoziazione con la Bce di un modello di vigilanza meno rigido e proporzionato alle peculiarità del credito cooperativo.