Paradossalmente, per il cuore dell’industria tedesca avrebbe dovuto essere un momento d’inconfessabile soddisfazione. Il 22 maggio scorso il governo cinese ha annunciato misure che sarebbero dovute piacere ai produttori di auto in Germania. Pechino avrebbe ridotto dal 25% al 15% i dazi all’importazione di veicoli, in un tentativo di sedare le tensioni commerciali con il presidente americano Donald Trump. Gruppi come Bmw, Daimler o Volkswagen non vendono mai in Cina più di 250 mila pezzi l’anno ciascuno, ma a prezzi così alti che ciascuna di loro avrebbe potuto far salire i profitti da mezzo miliardo a oltre un miliardo di euro. Doveva essere un’ottima notizia anche per gli azionisti sulla piazza di Francoforte.
Questi ultimi non l’hanno compresa così. Dal quel giorno il titolo Volkswagen ha perso il 28%, Daimler il 19% e Bmw è giù del 17% da metà maggio. È stata una capitolazione con pochi precedenti. Vi ha contribuito senz’altro il fatto che il giorno seguente, il 23 maggio, Trump abbia dato «istruzioni» al dipartimento del Commercio Usa di lanciare un’indagine sui dazi per le auto. Tutti sanno che in questo settore il prelievo all’importazione nell’Unione europea è del 10%, mentre gli Stati Uniti resta al 2,5%. Trump ha minacciato come ritorsione di alzare le tariffe al 20% e accusa la Germania di «inondare» gli Stati Uniti dei propri prodotti.
I timori degli investitori hanno dunque una ragione precisa, dietro la quale se ne intravede un’altra più generale. Non è la fine del modello tedesco, fondato sull’export verso le grandi economie mondiali. Piuttosto, è il sospetto che neanche la Germania sia immune dal rischiare una fase di declino e riassestamento in un momento più o meno lontano. Gli equilibri internazionali grazie ai quali il Paese è cresciuto nell’ultimo decennio potrebbero essere sul punto di spezzarsi, e non a favore dell’industria tedesca o dei suoi fornitori italiani. Oggi la Cina compra ogni anno «made in Germany» per circa 80 miliardi di euro e gli Stati Uniti per quasi 110 miliardi (di cui 30 per le sole auto). Ma né l’una né gli altri offrono più le stesse garanzie di crescita del recente passato. Questa insicurezza strisciante si intravede già nella caduta degli ordini all’industria tedesca da qualche mese e nelle perdite della Borsa di Francoforte da inizio anno. È persino possibile che la stessa nevrosi si stia trasmettendo al sistema politico.
Fino ad oggi la Germania ha funzionato grazie alla sua curiosa somiglianza con una piccola economia. Le altre grandi dipendono in gran parte dai consumi e dagli investimenti interni. Al contrario quasi un euro ogni due del reddito tedesco è guadagnato all’estero, come può accadere a Paesi dai piccoli mercati domestici come la Croazia, la Danimarca o l’Austria. La differenza è che dall’inizio della Grande recessione nel 2007 i fatturati tedeschi in Cina sono triplicati, quelli in America sono saliti del 50%. Non è chiaro però che tutto ciò possa continuare.
Trump non sembra disposto ad arretrare nella sua sfida commerciale. Quanto alla Cina, al contrario, deve fermarsi. La sua domanda di beni tedeschi (e europei) fin qui è stata finanziata da una delle più rapide espansioni di debito pubblico e privato della storia, fino al 275% del prodotto lordo. Ora Pechino sta imponendo una stretta al credito e una svalutazione per prevenire una crisi. Solo questione di tempo prima che l’impatto si avverta in riva al Reno, e al Po.