Quando nei giorni scorsi sono cominciate a circolare le bozze di quello che poi sarebbe diventato il Decreto Dignità sembrava che il capro espiatorio del debutto ministeriale di Luigi Di Maio fossero le Agenzie private per il lavoro (Apl). Le prime versioni limitavano drasticamente l’operatività delle agenzie abolendo lo staff leasing e raggruppando in un unico conteggio lavoratori in somministrazione e contratti a termine. Poi con una discreta azione di lobby via Lega il bilancio è risultato meno negativo: dal decreto Di Maio le Apl escono ammaccate, non stroncate. Ma l’episodio è emblematico di una situazione che affonda le radici nella cultura del nostro mondo del lavoro.
Anche per colpa di un lessico non orientato all’empatia (parole come «interinale» e «somministrazione» facilitano un racconto opaco dell’attività delle agenzie) è maturato nel tempo un pregiudizio ideologico negativo. Così le Apl sono un alleato delle pubblica amministrazione per produrre occupazione ma rimangono un «amico scomodo». La verità è che sono abituate a svolgere un’opera di accompagnamento e formazione che il pubblico — almeno nella versione italiana — non sa fare. I Centri per l’impiego sono sostanzialmente degli sportelli, le Apl sono invece un soggetto che «trasforma» la materia prima rappresentata dal giovane in cerca di occupazione. Come è normale che sia in un’economia di mercato, tra privato e pubblico passa anche una linea di conflitto che riguarda la remunerazione del servizio e una tendenza attribuita alle Apl a voler collocare i casi facili, non quelli complicati. «E comunque — ci tiene a sottolineare Alessandro Ramazza, presidente di Assolavoro, l’associazione di categoria — anche in Germania dove il pubblico funziona a meraviglia le Apl sono diffusissime e il numero delle somministrazioni è più elevato che in Italia».
Se questo è l’antefatto come cambierà il ruolo delle Apl con il governo giallo-verde? È ovviamente presto per dirlo anche se i diretti interessati temono che quel pregiudizio ideologico di cui sopra abbia trovato spazio tra i Cinque Stelle e possa condizionare Di Maio. Un test importante sarà rappresentato dal reddito di cittadinanza. Il ministro non ha ancora sciolto il dubbio numero uno: il provvedimento è diretto a contrastare la povertà oppure la disoccupazione? Nel primo caso non si capisce bene che legami si stabilirebbero con i Centri per l’impiego che non si occupano di povertà e non sono attrezzati a farlo. Nel secondo il reddito di cittadinanza diverrebbe una sorta di politica attiva del lavoro perché legata — come Di Maio ha anticipato — a lavori socialmente utili e proposte di lavoro che non si possono rifiutare oltre un certo numero. In questo caso Ramazza è convinto che le Apl potrebbero essere molto utili surrogando il pubblico. Ma allora che senso ha investire 2 miliardi, pressoché a fondo perduto, per i Centri per l’impiego?