«Aprima vista sembra, ma non è un prodotto tradizionale». I semi, nell’antichità, venivano utilizzati come unità di peso (il quirat), i frutti si prestavano per la distillazione di alcool e il legno dell’albero, infine, era apprezzato dai costruttori di imbarcazioni. Se ne parla nel Vangelo – nella parabola del Figliol prodigo – e Verga ci ha costruito attorno pure due personaggi dei Malavoglia. Il fatto è che, nella piana che guarda l’abitato di Ragusa inerpicarsi sul colle San Cono, grazie alle carrube Giancarlo Licitra ha costruito un business da 26 milioni di euro. «Che – aggiunge – nel 2018 diverranno 40, almeno stando agli ordini che abbiamo già in portafoglio».
L’azienda si chiama Lbg, acronimo che sta per Locust bean gum, vale a dire la farina di semi di carrube. «È un addensante, emulsionante, stabilizzante e gelificante naturale, utilizzato a partire dal dopoguerra soprattutto nell’industria alimentare statunitense» prosegue l’amministratore delegato. E infatti è un additivo alimentare con tanto di sigla: E 410.
La sua storia percorre la progressiva meccanizzazione dell’industria alimentare: «I primi a usare la farina di semi di carrube – puntualizza Licitra – sono stati gli americani per stabilizzare i formaggi molli. Oggi il 50% della produzione va a finire nel gelato industriale, il 30 nei derivati del latte e il restante 20 nelle salse e nei condimenti».
Fondata vent’anni fa, oggi la Lbg occupa trenta persone: «Poche, è vero – ammette Licitra –. Ma da quando siamo nati abbiamo sempre avuto l’idea che nell’industria della trasformazione alimentare fosse indispensabile raggiungere un alto grado di meccanizzazione e di automazione per un paio di motivi: eliminare gli errori, che con gli alimenti possono provocare danni ai consumatori, e rendere la filiera produttiva il più asettica possibile». Azienda robotizzata – sale bianche, acciaio lucidissimo – ma coi piedi ben piantati sul territorio: il 90% della produzione italiana di farina di semi di carruba arriva infatti dal ragusano, ma Licitra è stato il solo finora a cercare il maggior valore aggiunto nella trasformazione della materia prima. «Mio padre – ricorda l’imprenditore – era un commerciante di carrube. Io ho fatto un percorso diverso, ho lavorato in Continente in diverse multinazionali, poi ho deciso di tornare a casa e fare quel passo in più che ci ha portati fin qui». Un’integrazione verticale che nel 2011 è continuata a valle con l’introduzione di due nuove linee per fornire emulsionanti su misura alla clientela, «che sta diventando sempre più internazionale, da Nestlé a Lactalis fino a Unilever», e che proseguirà l’anno prossimo con un investimento da 10 milioni per un nuovo ampliamento della produzione.
*L’Economia, 11 giugno 2018