Da qualche tempo in politica si fa sempre più spesso riferimento a un approccio contrattuale e non solo nella terminologia. Nei tentativi di ridisegno delle autonomie regionali (quella del Veneto, per esempio) e nei programmi dei due ultimi governi, questo approccio è stato dominante. Il leader del Movimento Cinque stelle Luigi Di Maio lo ha ribadito in questi giorni chiedendo un nuovo contratto di governo. Poiché il metodo non sembra privo di problemi applicativi, è il caso di chiedersi se il contratto sia la forma più idonea per regolare i rapporti tra i soggetti che danno vita a un governo o a un riassetto istituzionale come nel caso delle autonomie differenziate. Teniamo ben presente la saggia osservazione di Einstein sulla fallacia dell’idea di ripetere una stessa azione che ha fallito nella speranza di ottenere risultati diversi e migliori.
Perché non funziona in questo tipo di azioni l’approccio contrattuale? Si può provare a rispondere utilizzando le teorie sul fallimento del mercato che hanno provocato profondi ripensamenti anche nelle organizzazioni economiche dove tale approccio è nato. La definizione e l’esecuzione di un contratto implicano una negoziazione nel corso della quale ciascuna delle parti persegue la propria utilità mentre nel governo si dovrebbe imporre la ricerca di un interesse comune con un orientamento di tipo cooperativo.
In una situazione molto dinamica e incerta, la possibilità di fissare ex ante in alcune clausole contrattuali la soluzione di problemi complessi e non ancora noti nel loro manifestarsi è altamente improbabile. L’inevitabile revisione delle clausole sottopone le decisioni a un’estenuante contrattazione continua ed è fonte di conflitti addizionali che distraggono dalla comprensione delle situazioni da affrontare. E porta a decisioni non idonee, dettate solo dall’esigenza di ciascuna delle parti di mantenere il punto. Non è il caso di ricordare come si concludono le ricorrenti verifiche o le riunioni di governo con le dichiarazioni enfatiche da bar sport di chi ha vinto e di chi già si dissocia preparandosi alla rivincita.
Esiste un’alternativa al contratto? Forse sì, quella di inserire un programma di governo entro un contenitore più ampio del contratto quale un patto o una convenzione o un accordo, che sono sinonimi solo in apparenza. Un contenitore che non specifichi le singole decisioni ma definisca le premesse decisionali cioè il quadro entro il quale devono essere trovate le soluzioni di compromesso; e soprattutto definisca i criteri per valutare i probabili esiti. In altre parole, le parti decidono prima di tutto di cooperare per arrivare a soluzioni condivise. Decidono ex ante i valori la cui salvaguardia ha una priorità assoluta. Un concetto che è stato espresso con grande efficacia da Tommaso Padoa-Schioppa: «C’è una differenza fondamentale tra negoziare e cooperare. Nel primo caso ci sono intorno al tavolo tanti problemi quanti sono i partecipanti al negoziato, perché ognuno vi porta il suo. Nel secondo il problema è uno solo e riguarda tutti; le opinioni su come affrontarlo possono divergere, ma l’interesse comune non è in discussione. Quando un problema comune viene affrontato come un negoziato, è probabile che invece di risolverlo lo si aggravi».
Gli effetti di un approccio negoziale sono abbastanza evidenti guardando la vita travagliata dei due ultimi governi. Soprattutto di quello in carica che ha visto nascere il fenomeno dei gruppuscoli extra-governativi, una versione attualizzata dei gruppuscoli extra-parlamentari degli anni Settanta. Sembrano appartenere a questa categoria il gruppo di Renzi e ora quello in via di formazione di Fioramonti. Entrambi proclamano di voler sostenere il governo (il primo lo ha addirittura fatto nascere) ma si dissociano da singole decisioni e propongono modifiche minacciando, se non accolte, di andarsene. In questo modo massimizzano il loro potere parziale, aumentano la loro visibilità e incassano consenso dalle parti che decidono di rappresentare. Ma non contribuiscono al governo del Paese. Contribuiscono invece a creare un clima di incertezza che scoraggia gli investimenti e la credibilità del Paese nei rapporti internazionali. L’approccio negoziale nuoce a una visione sistemica e alla comprensione delle conseguenze di medio-lungo termine delle decisioni. Se non si capisce che l’Ilva e la stabilità del quadro normativo promesso, la risoluzione delle crisi bancarie e industriali, la reiterazione di gare inconcludenti per Alitalia, la nuova regolazione delle concessioni autostradali sono un problema di governo e non di questo o quel leader alla ricerca di visibilità, non si andrà molto lontano