Negli anni immediatamente successivi alla Grande Crisi, uno dei temi più appassionanti del dibattito socio-economico andava sotto il titolo di jobless recovery, ripresa senza lavoro. E faceva riferimento al rischio che le imprese ristrutturatesi e snellitesi durante la crisi approfittassero del nuovo slancio dell’economia reale senza far crescere in parallelo la pianta organica o persino senza riassorbire i cassaintegrati. Nell’anno di grazia 2019, almeno in Italia, ci troviamo invece con uno schema rovesciato: più occupazione che Pil. «È un’inversione di paradigma — conferma Claudio Lucifora, docente alla Cattolica di Milano e curatore del Rapporto Cnel sul mercato del lavoro —. In passato c’era una legge non scritta secondo la quale per un 3% in più di crescita l’occupazione sarebbe salita solo dell’1%». Ora siamo dalla parte opposta: come ci dicono gli ultimi dati Istat, abbiamo più occupazione con meno Pil e meno produttività. «È un bene, ma evidentemente c’è un sottofondo di sofferenza che dobbiamo sapere cogliere».
E la spiegazione di questa contraddizione sta in una tendenza di lungo periodo: aumentano le teste ma diminuiscono fortemente le ore lavorate. È quello che viene chiamato «part time involontario», un fenomeno indotto dalla recessione e che ha eguali solo in Grecia e Spagna: nel 2008 riguardava il 6% degli occupati, nel 2017 arrivava al 12%. È di fatto una sostituzione tra part time e disoccupazione, tra tempi pieni maschili che crollano e orari ridotti femminili che crescono (il part time volontario invece negli stessi anni è sceso). Secondo il Cnel è questa la vera causa del lavoro povero, che non risiede tanto nel livello delle retribuzioni ma proprio nella ridotta intensità occupazionale di un numero crescente di persone. Da qui le difficoltà nel valutare i dati e la necessità di aspettare il riepilogo trimestrale Istat (che contiene le ore lavorate) per capire se la chiave del picco di maggio sta qui.