Non emerge nella retorica politica. È inattuale anche solo ricordarlo.Viene sottolineato talmente poco che un fatto tanto evidente resta lontano forse anche dalla consapevolezza di tanti elettori così come di tanti politici eletti. Ma la Francia, per l’Italia, non è solo il più grande vicino a cui ci legano due millenni di storia e cultura. Nel 2018 è, in modo misurabile, la principale fonte di lavoro e prosperità per l’Italia fuori dai confini. Più della stessa Germania, in molti sensi più degli Stati Uniti. Eppure pochi nel Paese sembrano rendersene conto quando contro Parigi si giocano intere battaglie politiche o campagne elettorali.
La République aggiunge ogni anno una grossa fetta al Prodotto interno lordo dell’Italia e per nessun aspetto ciò è vero come negli scambi. Fra i due Paesi di lingua neo-latina è nettamente il nostro ad avere i maggiori vantaggi nel commercio bilaterale. Fra import ed export di beni industriali, il surplus italiano sulla Francia dal 2015 ha superato i dieci miliardi di euro l’anno (secondo l’Istituto del commercio estero). In certe aree il contributo positivo della domanda transalpina al reddito delle imprese italiane è addirittura schiacciante, nel confronto fra i due Paesi. Il made in Italy vende mobili in Francia per oltre 1,5 miliardi di euro, mentre il fatturato dello stesso settore del made in Francia in Italia è di tredici volte più piccolo. Nella moda, i marchi prodotti in Italia fatturano in Francia oltre il doppio di quanto facciano i francesi da noi. Soprattutto, il mercato transalpino continua a espandersi per noi anche ora che i venti di guerra commerciale rallentano gli scambi globali. Solo nel 2018 la crescita dell’export tricolore oltralpe è stata del 5%, cinque volte più che nel resto del mondo e molto più dei tassi di crescita d’Italia e Francia. L’export italiano verso la Germania resta superiore in assoluto (55 miliardi nel 2017 contro i 46 verso la Francia), ma con la Repubblica federale il nostro Paese ha un deficit commerciale di nove miliardi. In altri termini, il contributo al Pil degli scambi con i tedeschi è negativo; quello con i francesi è fortemente positivo: vale (almeno) centinaia di migliaia di ottimi posti di lavoro in Italia, che rischiano di subire le conseguenze di un danno all’immagine del made in Italy generato dalle tensioni politiche fra Roma e Parigi.
Resiste però una narrazione che ci rappresenta come presunte vittime dell’invasione transalpina sulle imprese italiane. Di certo gli ultimi dati Istat mostrano che società francesi controllano in Italia 1.925 aziende, in questo terze dopo americane e tedesche (così come l’Italia è il terzo investitore diretto estero in Francia). Ciò significa che capitali transalpini garantiscono in Italia 250 mila posti di lavoro. Fra gli investimenti se ne trovano senz’altro di infelici e opportunistici, fra tutti Vivendi su Tim o Lactalis su Parmalat. Ma da quando è entrata in Gucci nel 1999 la parigina Kering ha più che triplicato i posti di lavoro a Firenze e a Milano, mentre a Bottega Veneta in dieci anni li ha decuplicati. Altri casi simili si contano in Loro Piana, Fendi e Bulgari che probabilmente non avrebbero creato altrettanta ricchezza italiana senza la regia della parigina Lvmh.
Quanto alle banche, anche qui sono diffusi i timori di colonizzazione da parte di Bnp Paribas o Crédit Agricole. I dati della Banca dei regolamenti internazionali dicono però che gli istituti francesi in questa fase fanno credito a famiglie e imprese italiane per circa 200 miliardi di euro. Fanno credito al governo per oltre 50 miliardi e hanno un’esposizione totale sull’Italia da circa 300: la più alta da fuori dei confini. Senza di essa, l’economia del Paese subirebbe un credit crunch.
Le due repubbliche restano dunque congiunte finanziariamente e commercialmente come gemelle siamesi. Quella a Sud non è affatto la vittima, come spesso si autorappresenta, anzi dal legame trae enorme prosperità. A meno, naturalmente, che tutto questo vada subordinato a una campagna elettorale giocata a colpi di insulti e di sgarbi.