Un brodo non crea tendenza. Mentre fa discutere la decisione della Unilever di lasciare lo stabilimento di Verona e produrre i dadi Knorr in Portogallo, i grandi numeri ci dicono il contrario: i trasferimenti di attività verso l’Italia battono le delocalizzazioni verso l’estero. E forniscono al dibattito in corso sui rapporti tra Italia e Ue un contributo interessante sul ruolo del costo del lavoro nelle decisioni di impresa. Ma andiamo con ordine. La novità di questi giorni è un’indagine targata Istat sul trasferimento all’estero della produzione negli anni 2015-17, un’indagine conoscitiva chiamata «International Sourcing» promossa proprio dalla Commissione europea. Ebbene il primo dato è che nei tre anni presi in esame solo il 3,3% delle medie e grandi imprese ha trasferito all’estero attività o funzioni svolte in Italia, contro il 13,4% del periodo 2001-2006. Un analogo trend di ridimensionamento del fenomeno si è registrata anche a livello europeo (si è passati dal 16 al 3%). Se poi dalle percentuali passiamo ai numeri assoluti la tendenza appare con maggiore nettezza.
Le imprese che hanno delocalizzato attività nel periodo ‘15-’17 sono state circa 700 e sono prevalentemente aziende sia industriali che di servizi (nel manifatturiero sono le industrie ad alta o medio-alta tecnologia a ricorrere all’estero con relativa maggiore frequenza). Ma quante invece hanno fatto scelte differenti? L’Istat ci dice che sono state oltre mille (pari al 5% delle grandi e medie industriali e dei servizi) che hanno scelto, sempre nello stesso periodo preso in esame dall’indagine, di dar vita ad outsourcing di attività o funzioni aziendali precedentemente svolte all’interno, ma localizzandole in Italia. Anche in questo caso più la dimensione sale più la propensione si rafforza. I dati dell’Istat ci danno anche un’altra traccia di grande interesse: di quei mille almeno 300 sono investimenti in outsourcing che tornano indietro dall’estero e quindi possiamo catalogare come operazioni di «back reshoring» da parte di gruppi italiani. Non è poco per capire come sia cambiato il vento.
Alla domanda quali motivi potrebbero influenzare in modo determinante ulteriori trasferimenti in Italia in un’ottica 2020, le imprese hanno risposto sottolineando la riduzione della pressione fiscale per l’84,5%, politiche specifiche per il mercato del lavoro al 79%, policy di offerta localizzativa al 75,5% e incentivi per l’innovazione al 70,9%. Sono giudicati altrettanto importanti per le imprese industriali finanziamenti per l’acquisto di macchinari (76,9%) e politiche per l’offerta di lavoro qualificato (technology skilled workers). Ma quali invece sono state nel recente passato le motivazioni contrarie, quelle che hanno portato a delocalizzare all’estero? La riduzione del costo del lavoro era giudicata «molto importante» dal 62,2% delle imprese e superiore come rilievo alla riduzione di altri costi di impresa (48,8%). E le aziende più motivate sul costo del lavoro sono le manifatturiere ad alta tecnologia. I Paesi destinatari di queste delocalizzazioni sono stati India (8,7%) per le funzioni aziendali di supporto come i servizi informatici e di telecomunicazioni, Stati Uniti e Canada in generale e Cina per la produzione di merci. L’ostacolo maggiore riguarda, invece, la difficoltà a trasferire personale all’estero.
Grazie a quest’insieme di dati si possono fare alcuni ragionamenti. Il primo è che il mutamento di pelle del sistema industriale italiano procede tutto sommato speditamente, la variabile costo del lavoro che aveva informato la lunga fase delle delocalizzazioni non conta più come prima. Non giustifica da sola la decisione di fare outsourcing oltrefrontiera, anche per la difficoltà di portar dietro la manodopera made in Italy e quindi pensare di poter riproporre all’estero la straordinaria qualità del manufacturing tricolore con un costo del lavoro a buon mercato. Una quadratura del cerchio che non esiste. La seconda riflessione riguarda il dibattito politico promosso dai sovranisti che comunque restano ancorati a una strategia centrata sulla competizione di prezzo. Ancora di recente in occasione di un seminario pubblico dell’Istat e di un convegno milanese dell’Ispi è riemersa quest’analisi da parte di esponenti della corrente No Euro radicata nella Lega: fuori dal sistema della moneta comune le imprese potrebbero ritrovare, insieme alla vecchia lira, spazi di mercato nella fascia bassa di prezzo e recuperare competitività. Peccato per i sovranisti che la loro fotografia del sistema industriale italiana sia ingiallita, parlano di una fase che ci siamo messi alle spalle. Oggi i problemi si chiamano continuità nella presenza nelle catene del valore transnazionali e innovazione.