Più 902mila occupati da marzo 2014, data di entrata in vigore del decreto Poletti – che ha liberalizzato i contratti a termine, cancellando le “causali” – considerato il primo atto della complessiva riforma del mercato del lavoro, meglio nota come Jobs act. Più 421mila lavoratori a tempo indeterminato, nella nuova versione “a tutele crescenti”, in vigore dal 7 marzo 2015, che rappresenta il “core” della riforma varata dai governi di centro-sinistra. Il tutto accompagnato dal crollo verticale del contenzioso lavoristico, che si è più che dimezzato sia nelle controversie aventi ad oggetto i contratti a termine sia in quelle sui licenziamenti, economici e disciplinari, in assenza peraltro di un boom degli atti di recesso datoriale.
Il «contratto per il governo» stilato da M5S e Lega nella pagina e mezzo dedicata al “Lavoro” indica l’obiettivo della costruzione di rapporti lavorativi stabili, puntando l’indice contro il Jobs act, ritenuto “colpevole” della precarizzazione del mercato. Dai numeri dell’Istat, tuttavia, emerge un quadro più articolato: c’è stato in realtà un incremento degli occupati stabili, specie nei primi due anni di applicazione (2015 e 2016), trainato dagli incentivi all’occupazione a tempo indeterminato e dalla nuova normativa.
A salire, a onor del vero, sono stati anche i contratti a tempo determinato(+676mila da marzo 2014), con un picco registrato dal secondo semestre 2017; un fenomeno che ha almeno tre spiegazioni. Intanto, la fine degli sgravi generalizzati, cessati a dicembre 2016 (nello stesso periodo è tornato a crescere l’apprendistato per via del mantenimento degli incentivi). Poi, il clima di incertezza economica, a cui si è aggiunta quella politica, che ha spinto le imprese ad assumere maggiormente con contratti a tempo. Il terzo motivo della crescita esponenziale dei rapporti a termine, negli ultimi mesi, è nel restyling delle forme contrattuali. Per effetto della crisi e del Jobs act sono letteralmente crollate le collaborazioni e le partite Iva; ed è probabile che ci sia stato, in parte, un effetto travaso nell’occupazione temporanea. Un analogo travaso ha interessato i “voucher” per il lavoro occasionale, abrogati in fretta e furia un anno fa per evitare il referendum della Cgil. I due nuovi strumenti introdotti per tamponare il vuoto normativo, libretto famiglia e il contratto di prestazione occasionale, non sono decollati, tanto è vero che M5S e Lega ne chiedono ora il superamento con l’introduzione di uno strumento più «chiaro e semplice» per gestire il lavoro accessorio attraverso un’apposita piattaforma digitale.
L’esplosione dei lavoratori a termine, tuttavia, riguarda i flussi di nuovi rapporti di impiego (come evidenzia l’Inps). Se si guarda, invece, allo stock occupazionale emerge che i 2,9 milioni di rapporti a tempo determinato rispetto agli oltre 23,1 milioni di occupati registrati a marzo 2018 rappresentano il 12,6%; una percentuale in linea con quella che si registra nel resto d’Europa.
Tra le criticità su cui le precedenti politiche, Jobs act incluso, hanno inciso solo in parte, c’è il costo del lavoro. Il tema è rilanciato, sia pure solo in termini di enunciazione di principio, dal contratto M5S-Lega, che parla di «riduzione strutturale del cuneo fiscale». È un argomento che ha forti riflessi sulla competitività delle nostre imprese, considerando che secondo l’ultimo report Ocse sul «taxing wages», relativo al 2017, l’Italia occupa il terzo posto per il carico di tasse e contributi sociali che gravano sul lavoro con il 47,7%, una percentuale pressoché identica a quella dell’anno precedente. La media tra i 35 paesi Ocse è decisamente minore, del 35,9 per cento.
La nuova coalizione M5S e Lega è intenzionata a introdurre, per legge, il «salario minimo orario» per tutte le categorie di lavoratori e settori produttivi in cui la retribuzione minima non sia fissata dalla contrattazione collettiva. Si vuol dare così attuazione all’unica delega del Jobs act non esercitata dal precedente Esecutivo per l’opposizione delle parti sociali che, successivamente, nel “Patto della fabbrica”, hanno affidato alla negoziazione tra imprese e sindacati la definizione del salario.
Altro tema su cui la nuova coalizione di governo vuole fare tabula rasa del passato è l’alternanza scuola-lavoro, resa obbligatoria dalla legge 107, nel 2015, negli ultimi tre anni delle scuole superiori. Nel «contratto per il governo» si critica, in particolare, l’attuazione della misura, sottolineando la necessità di rivedere le norme per puntare a una maggiore qualità (e coerenza) dei percorsi “on the job” con il ciclo di studi del ragazzo. Nel documento si dice anche stop alla gratuità degli apprendistati per le libere professioni.
Sulla grande incompiuta, infine, del Jobs act, vale a dire le politiche attive, M5S e Lega promettono riforma e potenziamento dei centri per l’impiego (ipotizzato un investimento piuttosto robusto, pari a due miliardi di euro). Si tratta di una dichiarazione d’intenti che presume un radicale cambio di marcia, visto che finora la spesa pubblica per i servizi per il lavoro è stata del tutto residuale, schiacciata dall’emergenza di coprire gli interventi di politica passiva.