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Se la concorrenza funziona a dovere – questa è l’idea – l’ottimo emerge attraverso la selezione della soluzione più efficiente realizzata dall’automatismo del prezzo. L’imprenditore (o il manager), in questo caso, è solo lo snodo tecnico di un automatismo competitivo, che usa la persona incaricata di decidere come ingranaggio necessario, privo di reale discrezionalità sull’esito finale del gioco. Un puro mezzo che serve per ottimizzare l’efficienza di soluzioni produttive destinate ad imporsi erga omnes.
Il rinvio all’automatismo del mercato di concorrenza perfetta ha tuttavia uno spazio limitato in un mondo reale in cui la concorrenza è limitata, se non altro per le economie di scala che fanno aumentare nel tempo le dimensioni dei concorrenti, riducendone i numero e la vis competitiva). Inoltre imperfezioni ed eventi non previsti, fuori controllo, fanno parte dell’esperienza quotidiana delle imprese, grandi e piccole: anche di quelle meglio organizzate. Il compito di gestire l’imperfezione e l’indeterminazione, in cui il core industriale resta comunque immerso, è toccato in gran parte al management delle imprese, coadiuvato – non sempre con efficacia – dai soggetti sociali e politici che governano la rappresentanza degli interessi e lo Stato.
Più precisamente, il management ha dovuto gestire il crescente gap che si è aperto tra il mondo produttivo, dominato dall’esigenza di comprimere al minimo la complessità delle situazioni e delle soluzioni, e il mondo “esterno”, in cui si svolge il consumo e la vita reale delle persone, creando un senso di reciproca estraneità e insoddisfazione.
Tuttavia, oggi siamo arrivati ad una svolta nella evoluzione che ha dato forma al nostro passato, e a forme tuttora diffuse di cultura sociale, anche nel campo manageriale. A partire dal 2000, con l’avvio della digitalizzazione in rete (Internet e connessi) l’assetto duale consolidato, ha cominciato a mostrare le prime, inquietanti crepe. Da allora, le cose hanno cominciato a cambiare radicalmente, e in tempi rapidi.
Il digitale rende possibile e conveniente usare la scienza e le macchine in contesti dotati di un grado crescente di complessità, avendo la capacità di gestire in modo efficace una maggiore varietà, cambiamenti accelerati nel tempo, legami di interdipendenza estesi e differenziati, situazioni che – essendo aperte al caso, ad eventi e scelte inattese – rimangono per principio altamente indeterminate.
La transizione verso il nuovo paradigma del capitalismo globale e digitalizzato modifica in modo radicale il senso e il percorso della modernità, perché il gap che si è nel tempo creato tra il core industriale (a bassa complessità) e il suo ambiente (a complessità elevata) perde la sua ragion d’essere.
Entrando in gioco macchine e algoritmi capaci di apprendere, e dunque compatibili con un livello di complessità maggiore, il core meccanizzato può allargarsi a problemi e settori finora esclusi e, al tempo stesso, può modificare la sua struttura interna ammettendo maggiore varietà, variabilità, interdipendenza e indeterminazione nelle operazioni di fabbrica e ufficio in precedenza condannate ad una necessaria standardizzazione e ripetitività. I robot nelle linee di produzione possono adesso variare in tempo reale, e senza costi, le lavorazioni da fare. Networks digitalizzati come il web, le piattaforme on line, i siti e blog specializzati nell’interazione a distanza riescono ormai a gestire in tempo reale, e senza costi connettivi, operazioni e soggetti interdipendenti, anche se distribuiti nello spazio globale. Learning machine sempre più evolute e ormai capaci di apprendere, sia pure in modo limitato, possono agevolmente adattare il comportamento tenuto dalla linea produttiva al mutare del contesto in cui la produzione si colloca.
D’altra parte, è vero anche il contrario: avendo a disposizione automatismi intelligenti che gestiscono da soli un certo grado di complessità e macchine capaci di adattarsi e di collaborare con l’uomo, diventa conveniente usare la scienza e le (nuove) macchine in attività che – come il consumo e i servizi non routinizzati – erano in precedenza rimaste ai margini della modernizzazione. Conservando gradi elevati di complessità ma anche livelli molto bassi di produttività.
Si apre in questo modo lo spazio per sviluppare una “seconda modernità”, il cui senso va oltre quello di una meccanizzazione flessibile e personalizzata del core industriale, che interiorizza la varianza e l’indeterminazione presente del mondo reale. Anche i servizi e il consumo potranno, con la stessa logica, adottare strumentazioni meccaniche e sfruttare i vantaggi della conoscenza codificata, mantenendo in gran parte i livelli di complessità a cui siamo abituati: solo con costi minori e possibilità di esplorazione del nuovo assai più grandi.
Ma quello che più conta è che, nella nuova modernità, l’antagonismo tra la bassa e alta complessità, tra sapere codificato e sapere generativo svanisce. Diventando semmai una relazione di complementarità, aperta alla collaborazione tra diversi modi di essere delle imprese e delle persone, ugualmente importanti. I vantaggi del sapere scientifico-tecnologico astratto e delle macchine possono ora essere ottenuti adattando in modo rapido e indolore gli strumenti della produzione a contesti complessi, che gli automatismi intelligenti sono in grado, almeno fino ad un certo punto, di gestire autonomamente o con un apporto limitato da parte degli uomini.
Si è molto discusso degli effetti che questo cambiamento potrà avere sul modo di lavorare e di vivere nel prossimo futuro. In genere, le interpretazioni prevalenti – sul terreno pratico e su quello teorico – sottolineano gli effetti efficientistici (di sostituzione) innescati dalla nuova intelligenza artificiale che si appropria di spazi una volta riservati, per la loro complessità, al contributo degli uomini. Con le conseguenze, positive (in termini di efficienza) e negative (in termini di perdita dei posti di lavoro) del caso.
Lo stesso timore di una ricerca di efficienza basata sulla sostituzione di macchine intelligenti al lavoro umano si va affermando, in molti casi, nel mondo del management. Molti ruoli di middle management e di consulenza vengono ormai affidati a robot che misurano, profilano (grazie alla data analysis), simulano, calcolano, controllano i risultati attesi, facendo le scelte più convenienti. Altri ruoli di connessione e comunicazione sono ugualmente delegati a piattaforme che automatizzano le relazioni secondo schemi di calcolo e di convenienza predeterminati. Le funzioni di intermediazione (nel commercio, nel turismo, nelle professioni, nei servizi alle imprese e alle persone ecc.) tendono da qualche anno a perdere spazio e rilevanza, in presenza di processi di disintermediazione spinta che mettono direttamente in contatto i portatori di capacità (a monte delle filiere) con gli utilizzatori potenziali delle stesse (a valle).
Ma questa, come cercheremo di dimostrare, è soltanto una delle facce della medaglia. Bisogna non dimenticarsi anche dell’altra, che corregge e integra la prima. Infatti, la transizione verso il nuovo paradigma digitale dà una rilevanza sempre maggiore ad un fenomeno chiave, posto al centro della seconda modernità in formazione: la crescita del grado di complessità ammesso dai sistemi produttivi di oggi e del prossimo futuro. Si tratta di un processo che si muove in senso complementare, rispetto al progressivo aumento dello spazio delegato agli automatismi meccanici. Nel nuovo paradigma del capitalismo globale e digitalizzato, i circuiti della produzione, della relazione e del consumo sono ormai in grado non solo di tollerare, ma di sfruttare la crescita della complessità ammessa (ordinata o comunque governabile) come fonte primaria di generazione del valore.
La complessità, in altri termini, cambia significato. Non è più “nemica” della modernità tecnologica, ma diventa invece una sua espressione, recuperando – nella progressiva scomparsa del gap – spazi di responsabilità e di libertà per gli uomini coinvolti e per il management delle grandi organizzazioni.
La rivoluzione digitale in corso affida infatti la gestione della complessità da trattare in parte alle macchine (nella misura in cui esse possono governarla autonomamente), riducendone il costo; e in parte agli uomini, che possono espandere i loro gradi di esplorazione del nuovo e di gestione del complesso, avvalendosi – se lo ritengono utile – della collaborazione delle macchine con cui sono in relazione. Si ripristina in tal modo una condizione di primato e di autonomia dell’intelligenza umana nella gestione della complessità del mondo reale in cui è immersa la produzione e la vita delle persone. Una sorta di “ritorno al futuro”, recuperando il passato, che rimanda alle condizioni del mondo pre-moderno, quando l’intelligenza biologica e sociale degli uomini si confrontava direttamente con la complessità di un mondo vario e variabile, altamente indeterminato, sviluppando forme produttive altamente personalizzate come l’artigianato o l’agricoltura contadina.
*Brano tratto dal libro “Uomini 4.0: ritorno al futuro. Creare valore esplorando la complessità” (FrancoAngeli) di Alberto Felice De Toni a cura di Enzo Rullani.