Con il facile aiuto del senno di poi si può dire tranquillamente che affidare i temi del lavoro agli Stati, e non farne terreno di iniziativa diretta da parte degli organismi di Bruxelles, si è rivelato un clamoroso errore. Che è stato pagato (anche) con la bassa qualità della relazione che si è creata nel tempo tra i cittadini e la Ue. Una scelta che in qualche maniera ha portato ad abbinare nel vissuto quotidiano degli europei in carne e ossa le istituzioni comunitarie all’idea di austerità e quelle nazionali al concetto di risarcimento sociale. Esaminando concretamente cosa questa forzata ripartizione di compiti ha prodotto in materia di lavoro e welfare si può dire che ci si è limitati ad emanare delle linee-guida, delle soft law come le definisce il presidente del Cnel ed ex ministro nei governi di centrosinistra, Tiziano Treu. Un esempio fra i tanti: la flexsecurity, la combinazione tra garanzie per i lavoratori e flessibilità per le imprese.
Alcuni Paesi l’hanno usata addirittura come via maestra, altri (tra cui il nostro) l’hanno malamente copiata, altri l’hanno bellamente ignorata. Solo ora, quando molti buoi hanno via via abbandonato la stalla, si ricomincia a parlare di politiche comuni come l’indennità europea di disoccupazione o il salario minimo europeo. In entrambi i casi si tratta di provvedimenti delicati la cui costruzione legislativa e successiva implementazione non è sicuramente un gioco da ragazzi ma è un bene che l’agenda setting europea cominci quantomeno a tenerli in considerazione. Non bisogna dimenticare, infatti, come pur a fronte di un ritardo nell’elaborazione di politiche comuni i rispettivi mercati nazionali del lavoro siano entrati in relazione sempre più stretta. Mancano ricerche approfondite in materia ma si può ragionevolmente sostenere come la mobilità del lavoro — e non solo di quello «povero» — abbia nel frattempo viaggiato a una velocità inedita. Fuori però dai radar del dibattito politico sui destini della Ue.