Dalle elaborazioni diffuse dall’Istat ieri sappiamo qualcosa in più su come si sta muovendo il mercato del lavoro italiano. In sintesi: è vero che aumentano le teste (+0,6%) ma diminuiscono le ore (-0,1%) e di conseguenza l’incremento dell’occupazione di cui abbiamo parlato nei mesi scorsi — e che il Movimento 5 Stelle si è intestato — in realtà è composto interamente da quello che abbiamo imparato a chiamare part time involontario (+105 mila). Ovvero mezzi lavori che hanno come teatro privilegiato il settore dei servizi (ristorazione, turismo, logistica, ecc…). Se poi incrociamo i dati Istat di ieri con quelli forniti solo 24 ore prima dall’Osservatorio sulle partite Iva Mef il quadro che emerge è ancora più nitido. L’aumento dell’apertura di partite Iva (+6,2% nel primo semestre ‘19) non deriva da spazi di nuova imprenditorialità favoriti della mini-flat tax del governo Conte 1 ma da una sorta di trasloco fiscale da regimi con tassazione più elevata al nuovo forfettario (per un approfondimento si può leggere l’articolo di Andrea Dili su nuvola.corriere.it).
E’ in atto in sostanza una frammentazione delle attività, calano le associazioni professionali, le società di persone e di capitali e aumentano i forfettari. Qual è il link tra le due tendenze? Un terziario che retrocede, abbandona le linee operative più strutturate e abbraccia una molecolarità fatta di mezzi lavori e di sopravvivenza fiscale. Questa mutazione proiettata sul sistema aggrava ancora di più lo storico ritardo del nostro terziario.
Da qui forse una riflessione che merita tempo e spazio: la difesa del lavoro si deve organizzare a valle modificando di continuo la legislazione o forse va salvaguardata contrastando a monte le tendenze verso il low cost dei servizi? A mio giudizio la risposta giusta è la seconda ma come conseguenza richiede una chiamata in causa dei principali committenti del low cost. Le imprese private e la stessa pubblica amministrazione.