La lunga scia di incidenti mortali avvenuti nelle fabbriche nelle ultime settimane sta generando una riflessione che per una volta non dovrebbe fermarsi alle dichiarazioni di cordoglio o alle prese di posizione di prammatica. Ci si interroga se esiste una correlazione tra i processi di riorganizzazione dovuti alla Grande Crisi e la ripresa delle morti bianche. O ancora se, paradossalmente, sia stata la vigorosa ripresa dell’attività produttiva la causa a monte di questa spirale di sangue operaio.
Prima di tentare una risposta converrà però partire dai numeri che, come vedremo, non spiegano tutto ma qualcosa dicono. Le statistiche fino a poco tempo fa mostravano un trend discendente e avvaloravano che il fenomeno fosse stato imbrigliato per la somma di un lavoro di 10 anni che ha visto coinvolte quantomeno le aziende più strutturate e dell’immissione di tecnologia.
Il fact checkingSecondo un recente fact checking dell’Agi nel 2014 gli incidenti mortali sono stati 1.175, nel 2015 sono saliti a quota 1.294 per poi calare nel 2016 a 1.130. Se prendiamo in esame un ventennio i numeri non si spostano di molto: tra il 1996 e il 2016 le morti bianche hanno conosciuto un picco nel 2001 arrivando a 1.528 e un minimo di 1.032 nel 2009. E grosso modo un quarto avviene in itinere ovvero durante un trasferimento stradale da casa al lavoro o dal lavoro al cliente.
Se poi confrontiamo i dati di oggi con gli anni 60 — quando erano 4 mila l’anno le vittime del lavoro — vediamo una riduzione dei tre quarti. Proporzioni simili le troviamo tra il totale degli infortuni, mortali e non, degli ultimi anni e quelli della stagione del Miracolo Economico. Oggi siamo scesi dai 745 mila del 2012 ai 635 mila del 2017, negli anni 60 si superava il milione. La media di oggi di circa 1.500 infortuni non mortali ogni 100 mila lavoratori è sotto la media Ue e di molto inferiore alla Germania.
Le notizie confortanti finiscono però qui. Nei primi tre mesi del 2018 si sono avuti 212 morti bianche — diventate 270 da marzo in poi — con un incremento-super del 11,5% sul corrispondente periodo del 2017. E allora torniamo alla domanda: è il ciclo economico virtuoso la causa a monte? L’ingegner Fabio Mazzenga, direttore della Slim Aluminium e esperto di sicurezza industriale, invita a ragionare su un elemento che chiama «comportamento» ovvero come gli uomini reagiscono agli investimenti sulla sicurezza e la formazione.
Il comportamento è una variabile che non si può controllare dall’alto ma che può essere influenzata da scelte accorte. È più facile però che questo tipo di pedagogia della sicurezza non riesca a coinvolgere l’intero universo delle Pmi (Piccole e medie imprese) e qui si può aprire una falla. «Dove i comportamenti sono meno codificati è più facile l’improvvisazione o la deroga agli standard previsti e spesso le vittime sono le persone più generose che con il loro slancio cercano di supplire a carenze organizzative o a eventi imprevisti» spiega Mazzenga.
Lo «stress produttivo»Il sindacato propone una lettura in parte diversa. Sarebbe quella parte dell’industria italiana che ha investito di meno, ha rinnovato gli impianti con il contagocce a causare uno «stress produttivo» che si scarica sugli uomini sotto forma di incidenti. Il crollo di una gru, la caduta di una passerella, tutti eventi non riconducibili a carenze normative o di tipo culturale. Ma è davvero così? Per capirlo bisognerà operare una piccola rivoluzione: uscire dalla cultura delle medie statistiche e realizzare ciò che finora non è stato fatto, un esame qualitativo degli incidenti avvenuti con l’obiettivo di cercare le costanti. È singolare che questo metodo non sia stato adottato ma è l’amara verità.
Passiamo a un altro tema controverso, quello degli appalti. La grande riorganizzazione avvenuta negli anni della crisi ha allungato l’industria, il vecchio outsorcing di singole lavorazioni ha lasciato il posto a filiere produttive articolate.
Il processo è virtuoso ma sino a che punto le case madri riescono a controllare qualità e sicurezza? Secondo Gianni Alioti della Fim-Cisl in svariate situazioni «i committenti hanno perso la capacità di coordinare una molteplicità di operatori e non sempre l’appalto porta con sé maggiori competenze». Anzi succede il contrario: entrano in fabbrica cooperative e piccole imprese che sono di fatto pura intermediazione di manodopera, che arriva anche al quinto grado di subappalto. «Ci sono persone che vanno ad operare in contesti che non conoscono e spesso a pagarne le conseguenze sono, come è successo, i figli del piccolo imprenditore».
In queste situazioni manca quella che l’ex ministro Maurizio Sacconi chiama «la piena informazione» sugli ambiti in cui si va ad operare. Caso ricorrente: le cisterne e le morti a grappolo con i soccorritori che uno dopo l’altro si immolano per tentare di salvare i compagni. Commenta Mazzenga: «Quando si fanno le gare i servizi interni delle grandi aziende curano tutti i dettagli, formali e sostanziali ma il baco è sempre in agguato. Non lo si può prevedere».
Proprio nei giorni scorsi è sorta una polemica tra Adriano Sofri e la Fincantieri in scia a una puntata di Report. Nel grande cantiere di Monfalcone nei giorni scorsi è morto un operaio di 19 anni travolto da un blocco di cemento e l’episodio ha acceso le discussioni attorno alla capacità delle grandi aziende di monitorare l’andirivieni di ditte e di operai che lavorano come fornitori. Il gruppo guidato da Giuseppe Bono ha replicato duramente sostenendo di «vigilare sul puntuale adempimento dei propri fornitori attraverso un personale dedicato esclusivamente a queste attività», verifiche che accompagnano tutto il ciclo della commessa dalla selezione delle ditte alla corretta esecuzione degli ordini.
Il nodo della formazioneChe l’elemento-chiave da focalizzare siano i comportamenti oppure i modelli organizzativi si arriva comunque al nodo della formazione delle persone. Sacconi denuncia come nelle aziende italiane sia «di tipo puramente formalistico, la prevenzione è stato burocratizzata, si osserva la forma e si elude la sostanza». I pezzi di carta fanno la felicità dei consulenti mentre manca un approccio di tipo sostanziale. «I medici visitano ogni anno 10 milioni di lavoratori, un patrimonio di informazioni che potrebbe consentire un ampio lavoro di prevenzione e invece non succede» aggiunge Sacconi.
E il cahier de doleances dell’ex ministro non finisce qui. Dieci anni fa con l’adozione del Testo unico sulla sicurezza sarebbe dovuto nascere il sistema della prevenzione per monitorare l’andamento degli infortuni e concepire delle azioni mirate, invece «non è ancora operativo perché nel frattempo l’Autorità della privacy si è messa di traverso». Concorda il sindacalista Alioti: «Si scrivono trattati sulla sicurezza, documenti enciclopedici ma non si parla con le persone».