Qualcuno fra gli addetti ai lavori lo definisce l’avvicinarsi inesorabile di un «redde rationem». Più passano i giorni, più aumenta dentro e attorno ai palazzi romani la sensazione che il programma di governo e i suoi garanti stiano entrando in un imbuto. Da oggi ai prossimi giorni qualcosa riuscirà a sfociare verso l’esterno senza incontrare troppi ostacoli, altri elementi resteranno bloccati o verranno triturati al passaggio. Di sicuro sta formandosi un ingorgo dove qualcuna fra le promesse e le proposte anche più recenti e qualche esponente del governo o della maggioranza avrà la peggio. La legge di bilancio non è mai stata un «pasto gratis» e anche questa sta per presentare il conto: non sarà il più facile dei momenti, per i protagonisti del governo giallo-verde.
Giovanni Tria, il ministro dell’Economia senza affiliazione di partito, è attestato su un obiettivo solo apparentemente semplice però chiaro: il deficit delle amministrazioni pubbliche per il 2019 può raddoppiare rispetto agli impegni ereditati dal suo predecessore Pier Carlo Padoan, ma non di più. Non ci sarà finanziamento delle misure promesse da Lega e Movimento 5 Stelle generando ulteriore debito.
La nota al DefQuando nei prossimi giorni si dovranno scrivere le grandi linee di programma nella «nota di aggiornamento» al Documento di economia e finanza (Def)— da approvare entro dieci giorni — il deficit per il 2019 dovrà essere all’1,6% del prodotto lordo (Pil). Tria è convinto che questo sia l’obiettivo adatto: permetterebbe di erodere un po’ il deficit «strutturale», lo zoccolo duro della posizione di bilancio, garantirebbe un calo sostanziale del debito; ma non imporrebbe una vera stretta adesso che l’economia sta chiaramente rallentando. Anche il premier Giuseppe Conte sarebbe acquisito a questa prospettiva.
Se questa è la premessa, che per il ministro dell’Economia resta ferma, la messa in musica appare tutt’altro che semplice. Sta emergendo in primo luogo un problema di metodo, perché i lavori di preparazione alla nota per il Def e alla legge di bilancio sono chiaramente in ritardo. Fino a pochissimi giorni fa i leader politici di governo e maggioranza, i vice-premier Luigi Di Maio e Matteo Salvini, si erano concentrati più sulle promesse ai loro elettori che sul lavoro collegiale con Tria e alcuni dei suoi collaboratori per valutare ciò che è compatibile con i vincoli sui conti e le scelte da compiere. Le riunioni più operative sono partite solo molto di recente, a pochi giorni dal momento in cui la nota al Def dovrà contenere non solo gli obiettivi ma anche la struttura di fondo della manovra di bilancio. Le istanze politiche del governo finora non hanno ascoltato coloro che conoscono le questioni tecniche di prima mano.
La strettoiaAccanto al metodo c’è però anche un problema di merito ed è questo che sta avvicinando la costellazione del governo a una strettoia difficilissima, dalla quale sicuramente ad oggi nessuno nell’esecutivo sa bene come uscire. Per ora infatti i conti non tornano, eppure andrebbero fatti tornare entro pochi giorni. Fino a questo momento Lega e 5 Stelle si sono suddivisi il compito di reclamare trasferimenti pubblici, ciascuno per i propri elettori.
Il «reddito di cittadinanza» e l’adeguamento a 780 euro delle pensioni minime per esempio determinerebbe uno spostamento netto di risorse dello Stato in prevalenza verso il Mezzogiorno, dove vive gran parte della platea dei disoccupati potenzialmente beneficiari. Allo stesso tempo, la richiesta del leader della Lega Matteo Salvini di anticipare la soglia della pensione con pieni diritti ai 62 anni di età con almeno 38 anni di contributi versati di fatto implicherebbe un trasferimento di risorse in prevalenza verso il Nord del Paese, dove vivono in proporzione più persone con questo tipo di versamenti.
Le scelte e la UeIl problema è che per realizzare queste e tutte le altre richieste – cancellazione dell’aumento Iva, tagli alle tasse per i lavoratori autonomi, sgravi sugli affitti dei commercianti, tagli alle accise sulla benzina – servono risorse che impongono scelte draconiane.
I conti non danno scampo: vanificato l’aumento dell’Iva, tenuto conto dell’aumento dei tassi d’interesse sul debito e del rallentamento della ripresa, il deficit l’anno prossimo tende spontaneamente a salire verso circa il 2,2% del Pil; senza aggiungere nuove misure, servirebbero dunque risparmi o nuove entrate per 10 miliardi solo per centrare l’obiettivo che serve per rassicurare l’Unione Europea e i tanti creditori del Paese. In più però c’è da finanziare il programma di governo, i cui costi reali sono ancora ignoti ma andranno necessariamente contenuti.
Tagli di spesaNe deriva che i risparmi o le entrate supplementari per far quadrare i conti dovranno essere in totale di almeno 15 miliardi di euro. Poiché non è pensabile ottenerli solo con tagli di spesa ai ministeri, se non in minima parte, i sacrifici andrebbero distribuiti altrove: aumenti dell’Iva selettivi e smantellamento di deduzioni o detrazioni fiscali sono le scelte più ovvie, ma non è detto che piacciano ai leader del governo populista.
Da alcuni di loro viene piuttosto la richiesta di colpire con nuove tasse le grandi aziende — banche o servizi di rete — perché questa sembra una scelta più funzionale ai sondaggi d’opinione. Che poi essa contribuisca a frenare ancora di più l’economia, distruggendo altri posti di lavoro e complicando ancora di più la quadratura dei conti fra qualche mese appare ai politici, per adesso, una questione del tutto secondaria.