Quelli della classe-ghetto non li vede nessuno se non il cieco con gli occhiali da sole
Sono soltanto in dieci ma tutti ragazzi difficili, così hanno pensato di isolarli come si fa con i virus. Il nuovo insegnante Omero Romero è il primo a chiamarli per nome, con un “appello” mai visto prima
«Dare un nome proprio e dare alla luce sono la stessa cosa. Da quando sono cieco ho capito che la luce non è semplicemente quella che si riflette sulle cose, ma quella che ne esce quando le chiami per nome». Omero Romero, quarantacinque anni, professore di scienze, come il poeta greco di cui porta il nome ha perso la vista a seguito di una malattia. Ma, come è stato per il cieco di Chio, l’assenza di luce si è trasformata per lui in una più acuta presenza – a sé stesso, ai suoi alunni, alla vita che «va da quando decidono che nome darti a quando quello stesso nome è solo un graffio su una lapide».
Se nel percorso scolastico di ognuno c’è stato un professore capace di mostrarci ciò che, non tanto per gioventù ma per incompiutezza, ancora non eravamo in grado di vedere, è impossibile non aggiungere all’elenco di chi, insegnando, «ha lasciato un segno» dentro di noi anche il protagonista del nuovo romanzo di Alessandro D’Avenia, L’appello: il professor Omero ha la forza narrativa d’illuminare di senso i nostri bui interiori e i nostri angoli ciechi proprio perché è l’unico in grado di vederli.
È il primo giorno dell’ultimo anno di scuola per la classe più complicata del liceo: sono soltanto in dieci, ma si è deciso di non disperderli in altre sezioni come si fa per i gruppi difficili – per isolarli come si fa con i virus. Dopo la malattia che l’ha reso cieco, impedendogli di veder brillare gli occhi di sua moglie e dei suoi due figli, Omero si riaffaccia all’insegnamento perché ha bisogno di sapere se è ancora vivo. Ad attenderlo, l’incarico annuale come professore di scienze dopo la tragica morte – avvenuta inciampando su un gatto – dell’insegnante precedente, un preside rubicondo nel corpo e spiccio nei modi, una bidella, Patrizia, maestra nel preparare il caffè e soprattutto loro, quei dieci ragazzi che nessuno in quella scuola, pur dotato di due o quattr’occhi, sembra aver mai visto per davvero.
La materia che Omero vuole ostinarsi a trasmettere non sono soltanto le scienze, «perché la materia è sempre e solo la vita, e le scienze sono un modo per capire qualcosa della misteriosa sostanza di cui è fatta». Ma come vincere il gioco d’azzardo della fiducia dei ragazzi? Come guadagnarsi il loro rispetto senza essere deriso per il suo deficit? Soprattutto, come conoscerli per davvero senza condannarli – né condannare sé stesso – a sprecare un anno intero senza mai essere presenti pur restando seduti sui banchi? Con un appello ben fatto: «questo è il potere di un nome proprio: fermare la ruota incessante del tempo e far ricominciare da capo una storia in cui tutto è già stato visto».
La classe è esterrefatta nel conoscere Omero ma è ancora più sorpresa nel sentire la prima richiesta del nuovo professore cieco: ognuno dei ragazzi, ogni mattina, si alzerà in piedi e scandirà con voce chiara il suo nome, cosicché dal timbro e dalla direzione del suono lui saprà riconoscere la sua posizione nell’aula. Soprattutto, ognuno di loro descriverà se stesso come si fa con i minerali – conformazione fisica, origine, proprietà, etc. – , in modo che il professore e i compagni possano conoscerlo. È in questo modo che Elena, Cesare (detto Ruggine), Achille, Stella, Oscar, Caterina, Ettore, Elisa, Mattia e Aurora scopriranno davvero chi sono, pur essendo stati uno accanto all’altro per cinque anni. E capiranno che la paura di mostrarsi non è altro che il muro che ci impedisce di lasciarci amare e che non serve vergognarsi del dolore, perché significa che la vita infine si è decisa a guarire.
«Tutti, dalla mattina alla sera lottiamo perché il nostro nome venga pronunciato come si deve. Lo cerchiamo dappertutto, in un posto di lavoro, in una relazione, in una notizia, in un vestito, in un record, in una passione, in una perversione, nella violenza, nell’ambizione, nella dipendenza e nella distruzione, nel dominio e nel piacere, in una tomba e nella scelta di qualcosa o di qualcuno cui appartenere; perché questo è avere un nome: avere qualcosa o qualcuno che lo tenga al sicuro».
Durante l’anno scolastico, sarà grazie a quell’appello mattutino che i ragazzi diventeranno grandi, capaci di rispondere presente alla vita adulta che li aspetta impaziente. Ed è grazie al loro coraggio di lasciarsi vedere per quello che sono, eroicamente imperfetti, che Omero imparerà a fare altrettanto.
Tra lezioni di fisica indimenticabili (al punto che le ho capite anche io) e che ricordano quelle del professor Keating dell’Attimo fuggente, tra lacrime e risate, cadute ma soprattutto anime rivolte verso l’alto, perché non si è vivi per abitudine ma per inquietudine, l’Appello ci ricorda che «siamo un fenomeno fisico e metafisico unico, che sparisce tutte le volte in cui diciamo io per finta, perché solo il suono magico delle nostre lettere può attivare il composto di gioia e dolore, di amore e disamore, di paura e avventura di cui siamo fatti».