C’è, dunque, voglia di Iri non solo dentro il governo ma a leggere le dichiarazioni di questi giorni anche dentro la Cgil. Il motivo che ha spinto il ministro Stefano Patuanelli a invocare il ritorno delle partecipazioni statali sta tutto dentro la difficoltà di far fronte alle crisi che stanno consumando la vita di due grandi aziende come l’Alitalia e l’Ilva. È chiaro che sia gli uni sia gli altri, il governo come il sindacato, di questi tempi vanno per le spicce e sono portati a pensare che le nazionalizzazioni siano una sorta di balsamo da applicare ai disastri di mercato per mondarli delle loro piaghe.
Un commentatore malizioso potrebbe dire che forse più che voglia di Iri è l’invocazione di una nuova Gepi, una sorta di ambulanza capace di raccattare sul campo morti e feriti a prescindere dalle valutazioni di e sul mercato, le chance di risanamento, le formule più opportune per salvaguardare l’occupazione. In un capitalismo fragile come quello italiano sono sopravvissute nel tempo solo due narrazioni forti, quella dei Pionieri d’industria celebrati anche nelle fiction televisive e quella dei Grandi Boiardi di Stato che, soprattutto nel secondo dopoguerra, seppero porre le basi del successo manifatturiero italiano. Essendo in questa stagione il mito dell’imprenditore privato sottoposto a dura revisione, se non alla gogna, non resta che l’altra narrazione. L’idea che in qualche modo solo un sovrappiù di volontà politica possa opporsi a una crisi industriale che non permette rendite di posizione, che opera per il consolidamento di interi settori e che è sottoposta alla nuova sfida del capitalismo delle piattaforme digitali.
Ma la domanda inevitabile è questa: quante probabilità ci sono di resuscitare un regime di economia mista come quello che vide protagonisti negli anni 50 e 60 i Saraceno e i Sinigaglia? Gli storici più avvertiti — come Pierluigi Ciocca e Giuseppe Berta — riconoscono come negli anni del miracolo l’Iri fu un fattore non solo di crescita quantitativa del nostro perimetro industriale ma anche di innovazione, progresso tecnico ed efficienza. Al punto di aver creato quel modello di economia mista come luogo di sintesi tra finalità di interesse pubblico e iniziativa privata. «Una relazione di interdipendenza» arriva a definirla Berta. Ma è lo stesso percorso che si reclama oggi oppure si pensa più alla divergenza dei modelli, a un sentiero che allontani obiettivi e cultura dell’industria pubblica rispetto a quella privata? L’acciaio e gli aerei di Stato sarebbero comunque costretti a muoversi in un ambiente di economia aperta — se non altro perché il turismo autarchico è una contraddizione in termini — e non potendo scaricare sui clienti le loro diseconomie non potrebbero far altro che metterle in conto alla fiscalità generale. Un’Iri, quindi, il cui consiglio di amministrazione — in base al noto principio per cui uno vale uno — dovrebbe essere scelto dai contribuenti sulla piattaforma Beneduce visto che alla fine ne sarebbero sia gli azionisti indiretti che i garanti di ultima istanza.
Il ministro Patuanelli era appena nato ma a compromettere la stagione virtuosa dell’Iri furono già dagli anni Settanta due indirizzi di fondo: la soggezione nei confronti degli input della politica nazionale/locale e l’idea che l’industria pubblica potesse riscrivere le relazioni industriali in barba alle regole di economicità. Governo e sindacato chiedono oggi, ognuno per il proprio tornaconto, la stessa mutazione? Chiedono di tornare a quel regime che Romano Prodi, dopo la sua esperienza all’Iri, ebbe a definire come «il suo personale Vietnam»? «Non era facile — ha raccontato — gestire il risanamento delle imprese secondo criteri di competitività internazionale, che già negli anni 80 diventarono stringenti, mediandoli con le esigenze locali che si trasferivano a Roma. Infiniti viaggi nelle città dell’Iri, tavoli di mediazione, assemblee pubbliche. Scontri violenti».
Non volendo tornare a quei giorni e pensando ai nostri la rinnovata voglia di Stato imprenditore non appare solo come il portato della cultura industriale di Patuanelli — nato in una città dell’Iri quale è stata Trieste — ma esprime in qualche maniera il difficile apprendistato governativo dei pentastellati. La mancanza di punti di riferimento, una spinta alla palingenesi che alla fine propone il revival di vecchie ricette. Chiedere alla mano pubblica di saldare le crisi comprando le aziende in difficoltà è l’altra faccia di una estraneità all’odierno dibattito di politica industriale. Che, come suggeriscono le esperienze di altri Paesi, si può fare in tanti modi e non solo nella veste dello Stato proprietario. Si fa politica industriale attraendo investimenti e stipulando con le multinazionali accordi di programma che includano obiettivi pubblici, si fa emanando norme di indirizzo che orientino le scelte private e favoriscano l’innovazione, si fa incoraggiando gli imprenditori a investire nelle loro aziende la liquidità parcheggiata nei conti correnti, si fa rafforzando quei nodi di sistema (infrastrutture in primis) che sono la precondizione dello sviluppo. E allora prima di una nuova Iri servirebbe un «vecchio» ministero dello Sviluppo economico, almeno com’era prima che cadesse in mano ai Cinque Stelle.