P rima di passare le consegne al governo giallo-verde, l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan avevano preparato un’analisi sulla solidità dei nostri conti pubblici in diverse ipotesi («Nota di aggiornamento al Def 2017», p. 87). Lo scopo era evidentemente quello di tranquillizzare gli investitori che posseggono titoli italiani. Lo scenario più preoccupante prevedeva che la Bce smettesse di acquistare Btp (come effettivamente farà a fine anno) e che, dopo le elezioni, l’incertezza politica aumentasse il rischio di credito e quindi i tassi di interesse, rallentando la crescita, come in effetti è accaduto.
L’analisi assumeva che le leggi in vigore (Fornero, Jobs act, reddito di inclusione) non venissero modificate, che gli impegni assunti — ovvero, completamento della Tav, vendita a privati dell’Ilva e quindi nessun fermo degli stabilimenti, vendita di Alitalia a privati così che il prestito di 900 milioni che lo Stato ha fatto all’azienda non si tramutasse in maggior debito pubblico — venissero soddisfatti. In più si dovevano trovare 12,5 miliardi per evitare l’aumento delle aliquote Iva. In questo scenario, sia pur con crescita debole e con un piccolo aumento del deficit, il rapporto debito-Pil avrebbe, seppur di poco, continuato a scendere. Rileggere quell’analisi aiuta a capire quanto è grande la distanza fra l’attuale ministro dell’Economia Tria e i due partiti che guidano il governo.
Q uando il ministro Tria dice che comunque l’anno prossimo il debito (in rapporto al Pil), scenderà, ha in mente, piu o meno, lo stesso scenario del suo predecessore: crescita un po’ inferiore a quest’anno, tassi di interesse più elevati e una molto graduale attuazione di quanto scritto nel contratto di governo — anche allocando un po’ di spese in maniera diversa, ad esempio dai consumi pubblici agli investimenti. Invece gli obiettivi che si propongono Lega e 5 Stelle — cancellare almeno in parte la legge Fornero, eliminare punti importanti del Jobs act, introdurre un reddito di cittadinanza ben superiore al reddito di inclusione varato dal precedente governo, nazionalizzare Ilva e Alitalia — sono incompatibili con una discesa del debito, che in quel caso richiederebbe aumenti di imposte per non farlo balzare in su. A ciò si deve aggiungere la «mina vagante» della flat tax, che non si capisce di quanto ridurrebbe le entrate fiscali e il problema, che rimane irrisolto, di come reperire 12,5 miliardi di euro per evitare un aumento dell’Iva che rallenterebbe i consumi. (L’ipotesi che un po’ di «buonismo» nei confronti degli evasori possa ridurre l’evasione e quindi aumentare le entrate fiscali è tutta da vedere e comunque impossibile da calcolare).
Non sorprende quindi che da qualche giorno — da quando la Camera ha approvato il decreto Di Maio sul lavoro, da quando i 5 Stelle dicono che la Tav si deve fermare e l’Ilva pure, che il reddito di cittadinanza non si può rimandare, da quando inoltre Salvini auspica un’Alitalia nazionalizzata — i tassi di interesse abbiano cominciato a salire dimostrando la crescente sfiducia degli investitori, cioè di chi dovrebbe prestare soldi al governo per finanziare tutte le politiche di cui sopra.
Così ci stiamo avvicinando all’autunno. Se non si chiarisce presto quale linea prevarrà, se quella di Tria o della coppia Di Maio-Salvini, gli investitori abbandoneranno i Btp prima che una legge di Stabilità venga scritta. Per prevedere quali effetti avrebbe una crisi di fiducia nell’Italia, basta leggere qualche libro di storia sui governi populisti dell’America Latina degli anni Ottanta o, rimanendo più vicini a noi, sulla Turchia e l’Ungheria di questi mesi.
L’Ungheria ha molti problemi ma, per il suo primo ministro, Viktor Orbán, i suoi guai hanno una sola causa: il finanziere George Soros. Se la nostra situazione dovesse peggiorare è facile prevedere quali saranno i «Soros» di Lega e 5 Stelle: la Commissione europea, la Bce e gli immancabili «speculatori» cioè quelli che dovrebbero finanziare le politiche volute da Lega e 5 Stelle.
Il governo non può continuare a dire una cosa al mattino e il suo opposto la sera. Il costo delle riforme deve essere quantificato e come finanziarle deve essere spiegato, con ipotesi verificabili. È questo che i mercati si aspettano. È questo che è dovuto ai cittadini.
A meno che non ci sia qualcuno, nelle Lega o nei 5 Stelle, che in realtà pensi che un incidente sui mercati sia addirittura auspicabile. Una crisi finanziaria che prosciughi i flussi di credito verso l’Italia potrebbe essere il primo passo verso i controlli sui movimenti di capitale e la nazionalizzazione delle banche per obbligare i cittadini a finanziare il debito pubblico, un passo che renderebbe inevitabile l’uscita dall’euro.
Naturalmente negando di averlo voluto e accusando gli speculatori, la Bce, la Commissione e, perché no, magari anche George Soros .