Tanta teoria, poca pratica. Il rapporto tra università e impresa è da sempre complicato: un dualismo che vede logiche contrapposte, dove l’alta formazione di rado si traduce in competenze pratiche, subito applicabili al mondo del lavoro. Da qui il «gap»: il buco (o il divario) da riempire per creare professionisti a tutto tondo e non soltanto professori e arginare l’ormai annoso problema della fuga dei cervelli. Ma come fare?
Questo è stato il tema dell’incontro «I ricercatori che mancano alle imprese» tenutosi venerdì 28 a Trieste Next in occasione della presentazione del libro «Nuove imprese. Chi sono i champions che competono con le global companies» di Filiberto Zovico, pubblicato da Egea. Un dibattito sulla sempre più attuale mancanza di ricercatori e competenze nelle aziende italiane, a cui ha preso parte anche Maurizio Fermeglia, rettore dell’Università di Trieste. A portare la propria testimonianza aziendale sono state le società italiane Sacco e Biofarma, due imprese del settore farmaceutico e cosmetico, tra i 500 «Champion» analizzati dal centro studi ItalyPost che negli anni della crisi, tra il 2010 e il 2016, anziché andare in affanno, hanno cominciato a crescere, producendo utili e anche posti di lavoro.
«Dalle testimonianze raccolte il rapporto tra università e imprese risulta difficile, perché, da una parte, le aziende sono alla ricerca di un numero crescente di ingegneri e informatici e dall’altro hanno bisogno di sviluppare ricerca, secondo standard che sono elevatissimi e contemporaneamente gestibili secondo logiche che le università italiane, a detta di molti, non riescono a praticare», spiega Zovico, fondatore di ItalyPost. «Un’azienda da 2400 dipendenti ci ha confessato di avere un solo laureato: la centralinista. “Il problema è che i laureati arrivano in azienda carichi di schemi fissi, convinti di conoscere anticipatamente le soluzioni tecniche ai problemi, incapaci di essere flessibili alle esigenze dei clienti, senza alcuna passione che li porti a essere curiosi e applicarsi nella ricerca di soluzioni tecnologiche davvero all’avanguardia”, ci ha raccontato il giovane titolare». Un caso estremo, che però evidenzia un problema concreto.
«Ci sono laureati che arrivano da noi e non solo non hanno mai visto un macchinario da produzione industriale, ma hanno problemi a usare correttamente un microscopio – testimonia Fabio Dal Bello, direttore scientifico della Sacco -. Noi siamo sempre alla ricerca di giovani ricercatori intelligenti e con idee nuove, purtroppo ci accorgiamo spesso che ai nostri laureati mancano le basi della microbiologia, fanno troppa poca pratica durante gli studi universitari. Da qui anche la carenza di tecnici di laboratorio, persone non per forza laureate ma con una manualità in grado di soddisfare i requisiti di qualità aziendale».
«Come spesso accade, quando c’è qualcosa che non funziona bene, la colpa è nel mezzo», afferma Germano Scarpa, presidente di Biofarma. «L’Italia è un Paese fatto da tante piccole imprese che spesso fanno fatica a capire, o che non hanno una struttura adatta, per stare dietro ai tempi della ricerca universitaria. Ancora più spesso non si riesce a digerire che una ricerca non sia finalizzata a un prodotto oppure che non porti a un beneficio diretto».
La soluzione? «Se noi imprese facessimo rete, creando massa critica, potremo cambiare prospettiva e avvicinarci così all’università, che da parte sua dovrebbe semplificare il linguaggio e uscire dall’autoreferenzialità, venendo incontro alle esigenze del mondo del lavoro».
*Tutto Scienze, 26 settembre 2018