Arriva la recessione e non abbiamo niente da metterci. Oggi l’Istat fornirà la stima preliminare del Pil del quarto trimestre 2018 e, con tutta probabilità, sancirà che l’Italia è entrata in recessione tecnica. Il guaio però è che proiettando lo sguardo davanti a noi siamo costretti a uscire dal lessico statistico e a fare i conti con i giudizi dei centri di analisi economica che parlano di Pil negativo anche nel primo trimestre ‘19. E le evidenze riferite al mese di gennaio che arrivano dal sistema delle imprese e dai territori purtroppo avvalorano queste stime. Lo stesso presidente del Consiglio ieri parlando a una platea di imprenditori milanesi, oltre ad anticipare il giudizio dell’Istat, ha calendarizzato un Pil in positivo solo a partire dal secondo semestre dell’anno in corso. La novità non è da poco e merita tutta l’attenzione necessaria da parte del governo e dell’opinione pubblica. La sensazione, come già detto, è che il drastico peggioramento del ciclo economico ci trovi del tutto impreparati e di conseguenza più deboli.
Il Parlamento ha approvato solo un mese fa la legge di Stabilità e quello strumento — figlio di un lungo e complesso negoziato con Bruxelles — oggi ci appare incapace di fronteggiare la nuova sfida, è nato da quattro settimane ma mostra già le rughe. In più un elemento di preoccupazione aggiuntivo riguarda il focus dell’azione dei capi dei due partiti di governo: Matteo Salvini ha tutta l’intenzione di spendere il consenso di cui gode nell’affermazione della sua linea oltranzista di gestione delle politiche per l’immigrazione, Luigi Di Maio ci appare preoccupato innanzitutto che il suo provvedimento-bandiera (il reddito di cittadinanza) sia spiegato a sufficienza e entri velocemente nel circolo del consenso elettorale. E quando il leader dei Cinque Stelle si è pronunciato sull’andamento dell’economia ha addirittura parlato di un imminente boom, a testimonianza di una scarsa conoscenza sia delle tendenze internazionali sia del sentiment delle imprese.
Forse anche per rimediare a queste distrazioni il premier Conte ieri a Milano si è voluto misurare con i temi dell’industria. Ma quasi a voler allontanare da sé l’amaro calice il presidente del Consiglio ha fornito una lettura tutta esogena della crisi, arrivando a sostenere che una volta firmato un accordo sui dazi tra Usa e Cina tutto sarà risolto e anche l’export italiano ripartirà. E se fino a qualche mese fa il governo sosteneva che i provvedimenti di quota 100 e di creazione del reddito di cittadinanza si sarebbero rivelati un potente strumento anticiclico perché capaci di stimolare la domanda interna, ieri il premier non ha riproposto questa interpretazione. Sommando tutti gli input di cui disponiamo l’impressione è di una cabina di regia che nel suo insieme stenta a metabolizzare la novità forse perché teme di dover riscrivere l’agenda delle priorità politiche. E la stessa sensazione hanno avuto ieri gli imprenditori dell’Assolombarda che ascoltavano il premier. Invece è proprio questo il passaggio a cui il governo è chiamato dimostrando così maturità e senso di responsabilità. La posta in palio è alta, non si tratta solo di stringere la cinghia per qualche mese e aspettare fiduciosi che Trump e Xi Jinping invertano il ciclo, un Pil negativo per uno o addirittura due trimestri del ‘19 metterebbe a dura prova sia «i numerini» di finanza pubblica concordati con la Ue sia la solidità di un sistema delle imprese che, per una buona parte, sta ancora leccandosi le ferite della scorsa crisi.