Via libera Ue alla nuova direttiva per il diritto d’autore. Si va verso una maggiore protezione del copyright in un settore il cui valore supera i 900 miliardi di fatturato. Un sì arrivato nonostante il massiccio lobbying contrario delle multinazionali Usa.
La Commissione europea aprì il suo primo caso contro Google per abuso di posizione dominante nel 2010. Il gruppo allora finì sotto accusa perché avvantaggiava i propri servizi di shopping nelle ricerche in rete. Pochi mesi dopo, Google si iscrisse al registro volontario dei lobbisti presso le istituzioni dell’Unione europea: dagli archivi del 2011 risulta che spese un po’ meno di 700 mila euro per perorare la propria causa, fare pressioni, incontrare politici e funzionari. Quello stesso registro mostra che nei cinque anni seguenti il bilancio delle attività di lobby dell’azienda di Mountain View a Bruxelles è esploso fino a poco meno di cinque milioni l’anno, il più alto da parte di una singola impresa assieme a quello di Microsoft. In meno di due anni, a partire dal dicembre del 2014, Google ha tenuto 120 incontri con commissari europei, esponenti dei loro dei loro staff e direttori generali della Commissione (più una quantità innumerevole di riunioni non registrate con funzionari di livello più basso). Nel frattempo l’azienda ha assunto direttamente dalla Commissione Ue un esperto di proprietà intellettuale nel settore digitale, Tobias McKenney, e ne ha fatto il proprio capofila sugli stessi problemi in Europa.
Niente di tutto questo ha evitato a Google la sua prima, la seconda e, il 13 marzo scorso, anche la sua terza multa dall’Antitrust di Bruxelles. Ma il dispiegamento del suo potere di lobby, fotografato da LobbyFact.eu, mostra allo stesso tempo la debolezza e la forza dell’Unione europea. Google ha aggredito il sistema decisionale europeo con il proprio denaro – una quota minima di quello che elude sulle tasse dai profitti europei – perché ha capito che per il Big Tech americano questo è il momento di farlo. Microsoft, Apple, Amazon o Google-Alphabet hanno già avuto problemi con i guardiani della Concorrenza di Bruxelles e ora si preparano a difendersi ancora. La sfida non ha fatto che iniziare. Questo è il continente con il più grande mercato avanzato al mondo eppure piazza una sola azienda tecnologica, la tedesca Sap, fra le prime venti al mondo. Ma proprio a causa del fallimento dell’industria europea nel dare vita a colossi digitali, è più difficile per questi ultimi controllare e influenzare i regolatori di Bruxelles, Berlino, Parigi e Roma grazie al loro potere di lobby. Quest’ultimo fino ad oggi per loro ha funzionato meglio a Washington. Ma adesso è l’Europa che intende regolare e limitare il Big Tech americano più ancora dell’America stessa, preoccupata dall’ascesa di concorrenti cinesi come Alibaba o Tencent.
Se n’è parlato a lungo ieri al Politecnico di Milano, in un incontro fra Umberto Bertelè, Giampio Bracchi, Francesco Caio di Saipem, Pietro Guindani di Vodafone, Sergio Mariotti e Cristiano Radaelli. Il dibattito al Politecnico, come l’approvazione della direttiva sul copyright ieri a Bruxelles o la terza multa dell’Antitrust a Google sette giorni fa sono parte dello stesso clima che si sta diffondendo in Europa: reazione al potere delle Big Tech americane, rivolta di alcuni contro l’uso dei dati personali dei consumatori, ricerca di strumenti legali per limitare i possibili abusi di Google, Facebook o Amazon nelle loro strategie per soppiantare operatori tradizionali nel mercato dei beni di consumo, nei servizi di banca o assicurazione o persino nella distribuzione farmaceutica. Non che questi siano terreni adatti alle vendette sommarie. Contenere il potere di gruppi che nell’insieme valgono 4 mila miliardi di dollari a Wall Street un obiettivo talmente vasto e generico, che Bruxelles è destinata a fallire se pensa di perseguirlo con gli strumenti dell’Antitrust. A priori non sarebbe in sé neppure una missione nell’interesse dei consumatori, che godono dei benefici del Big Tech. E’ probabile dunque che dope le elezioni europee di maggio la nuova Commissione debba definire meglio la propria missione. Può farlo attorno a un problema: la proprietà delle reti di contatti di chi usa i social network, quella dei dati e la facoltà di disporre di entrambi quando un cittadino europeo vuole abbandonare una piattaforma per spostarsi su un’altra.