Il dubbio, adesso, è che noi italiani ci stiamo comportando in modi diversi a seconda delle circostanze. Non sembra che votiamo con il portafoglio come votiamo nell’urna elettorale.
Non rispondiamo ai sondaggi come a coloro che gestiscono i nostri risparmi. Non ricerchiamo su Google espressioni simili a quelle che condividiamo ogni giorno pubblicamente su Facebook. Nel voto del 4 marzo le due forze oggi al governo hanno preso il 51%, ma non hanno mai riscosso la fiducia dagli italiani come risparmiatori: malgrado gli ottimi rendimenti, negli ultimi mesi le famiglie hanno lasciato scendere un po’ la loro esposizione sui titoli di Stato. Da allora il gradimento di Lega e M5S è salito al 60%, ma neanche questo sta facendo cambiare l’approccio di noi italiani di fronte ai nostri conti in banca. L’ultimo Btp Italia, offerto alle famiglie, si è venduto molto meno che in passato. Quanto alle abitudini sulla rete, anche qui emerge lo stesso dualismo: in ottobre l’86% delle interazioni Facebook di argomento politico in Italia è avvenuto su pagine favorevoli al governo (50 milioni di condivisioni, «mi piace» e commenti); eppure sempre in ottobre la ricerca su Google di informazioni sulle promesse del governo — reddito di cittadinanza, pensioni — è stata soppiantata da quella su un’altra parola chiave: «spread».
La paura per i costi sul debito inizia a inquinare la speranza di un nuovo welfare. È sempre possibile che noi italiani sembriamo così incerti solo perché, in fondo, abbiamo già fatto i conti: aumentare oneri previdenziali già enormi magari sarà un male per il Paese, ma ciascuno di noi spera di trarne un beneficio personale. Lo stesso vale per un sussidio contro la povertà che non spinga le persone a cercare un nuovo lavoro. Restano dunque lo spread e quella paura collettiva che ormai contamina le speranze individuali. Quanto a questo, non viene spiegato abbastanza né in Italia né in Europa che il Paese rimane finanziariamente solvibile. Anche sul debito pubblico. I conti con l’estero sono in equilibrio, l’economia genera molto risparmio e, anche se tutto andasse piuttosto male fino al 2021, il debito dello Stato difficilmente potrebbe salire dal 131% oltre il 133% del Pil. Il problema non è la solvibilità nei prossimi anni, ma la liquidità nei prossimi mesi. Con un debito così vasto, tassi in aumento e un deficit crescente, lo Stato ha un bisogno continuo di raccogliere prestiti. Non può perdere l’accesso al mercato neppure per un giorno, perché il collasso di fiducia che ne deriverebbe rischia di precluderlo per anni.
Certo, niente di tutto questo dovrebbe presentare un pericolo nella parte finale di quest’anno perché la liquidità raccolta (a costi accettabili) è già abbastanza. È tutto diverso però nei primi mesi del 2019, quando il Tesoro dovrà emettere molti più titoli e dovrà farlo lungo un percorso pieno di trappole: gli investitori esteri hanno già tagliato la loro esposizione di 66 miliardi di euro e intendono continuare a farlo; a gennaio parte una procedura europea con un piano di rientro sul deficit che l’attuale governo — fatto senza precedenti — potrebbe rifiutarsi di firmare; e a febbraio si vedrà che l’economia è rimasta paralizzata anche in inverno. È in quel momento che si concentra il massimo pericolo, perché se l’Italia nel 2019 perdesse l’accesso al mercato non potrebbe far altro che chiedere un prestito da centinaia di miliardi alle istituzioni europee. E questo non sarebbe senza condizioni. Non solo le riforme che l’attuale governo rifiuta: anche una qualche forma di ristrutturazione del debito a carico dei creditori privati, che i parlamenti di Berlino e di una decina di altri Paesi del Nord a quel punto esigerebbero prima di mettere a rischio i soldi dei loro contribuenti. Sarebbe un errore tragico ed evitabile, frutto di una lettura sbagliata degli eventi. Questo non è il 2011, quando una crisi economica ne innescò una finanziaria che portò alla caduta di Silvio Berlusconi. Qui la linea delle cause corre in senso inverso: un fatto politico — il trionfo del populismo — sta generando stress finanziario che produce recessione e nuove tensioni sul debito. L’origine del problema è questa caotica campagna elettorale che non finisce mai, perché erode la fiducia. È qui che qualcosa deve cambiare prima che sia tardi. Spetta al governo. E spetta anche a noi italiani smettere lasciarci illudere che l’interesse personale di ciascuno si faccia a spese dello Stato. Cioè di tutti.