È appena il caso di ricordare in quali circostanze fu delineato il nuovo quadro del Meccanismo europeo di stabilità. Le modifiche al trattato sul fondo salvataggi, il Mes, furono varate all’incontro dei ministri delle Finanze dell’euro del 4 dicembre 2018. Che tipo di momento fosse quello lo ricordiamo tutti molto bene. A metà ottobre l’Italia aveva presentato un bilancio con aumenti di spesa corrente di oltre venti miliardi. La Commissione aveva respinto l’intero impianto, muovendo i primi passi formali di una procedura contro il Paese. Nella proposta del governo i mercati avevano visto la volontà di rischiare l’uscita dall’euro — a torto o a ragione — e avevano reagito di conseguenza. Solo nell’ultima settimana di novembre l’Italia avrebbe iniziato una ritirata per scongiurare una crisi e, al momento del primo accordo sul Mes, tutto era ancora sulla lama del rasoio.
È in queste condizioni che il governo affronta il negoziato sul fondo salva-Stati. Non sorprende che la sua forza di persuasione non fosse smagliante. All’epoca una coalizione del Nord Europa insisteva perché il sistema prevedesse perdite automatiche sui creditori privati, prima che il Mes potesse salvare un Paese dai conti in disordine. Alla fine il compromesso non fu certo ideale per l’Italia ma, date le premesse, poteva andare peggio: esattamente come oggi, ci sarà discrezionalità politica in ogni passaggio prima di decidere se il Mes deve chiedere che un Paese da salvare imponga un default pilotato ai suoi creditori privati; in contropartita aumenta il potere del Mes stesso, un organo esterno all’Unione europea e di proprietà dei governi dell’euro nel quale si decide all’unanimità o lasciando diritto di veto (nei casi urgenti) solo a Germania, Francia e Italia. Parte dell’analisi per determinare se un Paese in crisi è insolvente — dunque deve fare default — viene infatti tolta alla Commissione Ue e data al fondo salva-Stati. Non una buona idea, data la natura diversa delle due istituzioni. Di fatto così i governi e parlamenti di Berlino, Parigi e Roma restano (lo erano già dal 2012) guardiani esclusivi dell’accesso di un Paese all’azione protettiva ad hoc della Banca centrale europea, dato che la Bce entra in gioco solo se c’è l’assenso del fondo salva-Stati.
Che può fare l’Italia adesso? Se il governo firma l’accordo europeo, rischia di cadere perché una parte del M5S dissente; se lo blocca rischia tensioni sui mercati del debito, perché gli investitori concluderebbero che una frangia di estremisti anti-euro hanno ancora il controllo di fatto del Paese. C’è però una terza via per l’attuale governo, che non ha concorso al negoziato: chiedere tempo in Europa per consultare il proprio Parlamento (Parigi e Berlino lo fanno regolarmente) e poi proporre una revisione che smascheri l’europeismo di facciata della Germania. L’Italia può subordinare il suo assenso alla promozione del Mes — con le regole attuali — al rango di vera istituzione europea che risponda solo al Parlamento di Strasburgo. Senza animali più uguali degli altri.