Ogni Paese ha il populismo che si merita. Quello spagnolo è diverso da tutti gli altri per l’ingrediente esplosivo dell’indipendentismo catalano che mina qualsiasi tentativo di reggere un governo per più di un anno. L’ultimo a cadere, terzo, appunto, in poco più di tre anni, è stato quello di Pedro Sanchez, detto “el guapo”, giovane e fascinoso leader socialista, prima reietto dal Psoe e poi rientrato dalla porta principale delle primarie, quello che era stato capace di “sfruttare” l’ira dei catalani per far cadere il governo di centrodestra di Mariano Rajoy. Ecco, alla prova dei fatti anche il suo governo di minoranza, retto sulle gambe traballanti dei nazionalisti baschi e degli indipendentisti di Barcellona, è saltato per aria sulla mina dell’unità nazionale che a Madrid si declina anche quando si tratta di votare il bilancio.A dire la verità le iniezioni di populismo, di Ciudadanos da destra e di Podemos da sinistra, hanno da tempo fatto saltare il bipolarismo imperniato sull’alternanza tra i socialisti del Psoe e i popolari del Pp. Siccome nessuna di queste forze di rottura è però riuscita a prendersi il pacchetto della maggioranza e siccome, a differenza di quel che è successo in Italia tra Lega e M5s, i due movimenti non hanno neanche provato a unire i due programmi alternativi e incompatibili, alla fine sono entrati in governi di coalizione a guida “tradizionale” nel tentativo di influenzare (cosa che all’interno del Psoe ha funzionato, visto che Sanchez può essere considerato il leader che ha rotto la vecchia classe dirigente) il corso della politica. Ma nel frattempo la Spagna veniva travolta dal vento dell’indipendentismo catalano, con quel referendum illegale che ha portato all’esilio del leader Carles Puigdemont e alle manette nei confronti degli altri dirigenti catalani, 12 dei quali sono finiti sotto processo avviato proprio in coincidenza col voto al bilancio.Per inciso, i catalani si sono uniti agli arci-nemici del centrodestra e hanno fatto cadere questo governo socialista minoritario che aveva portato in parlamento una Finanziaria che la ministra delle Finanze, Maria Jesus Montero, aveva definito la «più sociale della storia». Sì, perché mantenendo quelle che erano state le promesse all’indomani della caduta di Rajoy, “el guapo” aveva messo nero su bianco l’aumento della spesa sociale, l’adeguamento delle pensioni, l’innalzamento del salario minimo interprofessionale a 900 euro e la stesura di un piano da 3 miliardi per il lavoro giovanile. Tenuto conto dell’alleato tattico ingombrante, Sanchez aveva anche previsto l’aumento del 52% degli investimenti in Catalogna, roba da 2 miliardi di euro. Agli indipendentisti non è bastato perché, a loro modo di vedere, il leader socialista non aveva fatto abbastanza per sostenere la causa dell’autonomia e, proprio mentre nelle aule giudiziarie partiva il processo ai 12 indipendentisti, in quelle parlamentari cadeva il governo più favorevole, o se vogliamo meno contrario, ai battaglieri deputati catalani. «State facendo uno storico errore di cui dovrete rendere conto ai catalani», li ha avvertiti la ministra Montero.A giudicare da come sono andate le ultime elezioni in Andalusia (vittoria al blocco composito di centrodestra dopo 36 anni di guida socialista), Montero non ha tutti i torti. Sanchez ha convocato le elezioni per il 28 aprile e lo schieramento di centrodestra guidato dal nuovo leader del Pp, Pablo Casado, con l’aggiunta di Ciudadanos e del partito franchista Vox, che reclama la sospensione dell’autonomia catalana, è visto in vantaggio. Santiago Abascal, leader di Vox, finora non era mai riuscito a entrare in parlamento ma l’11 per cento ottenuto in Andalusia rischia di spostare sensibilmente a destra l’equilibrio: l’obiettivo è quello di un governo più centralizzato con la cancellazione di ogni afflato federalista.E i catalani che hanno fatto cadere senza un pensiero Sanchez forse si rimangeranno l’intransigenza esibita nei confronti del leader socialista. O forse era proprio questo che volevano.