L’immagine che viene in mente è quella di una tenaglia. Il simul stabunt di Matteo Salvini e Luigi Di Maio e le loro continue piroette tra comunicazione e politica stanno bloccando come due ganasce il processo decisionale di un governo, che pure godrebbe di largo consenso popolare. La paralisi si estende in automatico al Paese che viene tempestato di messaggi contraddittori e di proposte estemporanee. Un giorno le case chiuse e il giorno dopo magari le cassette di sicurezza. L’importante è influenzare l’agenda politica, monopolizzare i tg, togliere fiato all’opposizione. La somma algebrica di tanta esuberanza equivale però a una sovrapproduzione di incertezza: gli investitori esteri si tengono alla larga, le imprese italiane rinviano qualsiasi progetto, le crisi aziendali restano irrisolte, il risparmio rimane parcheggiato nei conti correnti.
Di Luigi Di Maio e della sua cultura antindustriale, del suo proporsi in politica come una sorta di giustiziere del popolo vessato dai datori di lavoro abbiamo già detto. Più complessa è l’analisi che riguarda Salvini perché diversi sono i retroterra e i percorsi.
La Lega ha dato sempre gran peso alle questioni dell’economia reale tanto che molti ne interpretarono la nascita come un episodio di rivolta fiscale ma, a sorpresa, al momento di definire gli incarichi di governo Salvini non ha rivendicato per i suoi nessun dicastero economico, ha preferito che Di Maio facesse il pieno di Industria e Lavoro. Nel suo schema iniziale evidentemente il consenso della constituency dell’impresa non era una priorità, bisognava conquistare il Sud per fare della Lega un vero partito nazionale. Le manifestazioni torinesi pro Tav hanno però indotto il leader leghista a cambiare direzione, ha percepito che si stava aprendo una crepa e avuto timore che si operasse una sorta di divorzio del Nord. Da qui una serie di mosse che, messe tutte assieme, hanno preso le sembianze di un’Opa lanciata sul partito del Pil. Innanzitutto un convinto Sì-Tav che gli ha permesso di sfondare nelle elezioni in Piemonte, poi due incursioni nel campo di Di Maio (il lavoro) con la proposta di riscrivere la legge Dignità e di rinviare alle calende greche il salario minimo. L’ordine del giorno fatto votare alla Camera in appoggio ad ArcelorMittal sul controverso tema dell’immunità ha segnato un ulteriore passo nella stessa direzione, a cui si è affiancato in queste ore il sostegno ad Atlantia, pesantemente schiaffeggiata da Di Maio.
La verità è semplice, in fondo: come il leader pentastellato senza i NoTav e i No Ilva si sente politicamente sperduto, così Salvini nonostante il suo 37% demoscopico senza il partito del Pil assomiglia al classico re nudo. Ma l’Opa del leader leghista ha un limite, deve — almeno finora — il suo successo all’ennesima riproposizione dei due forni, quello di Giorgetti e quello di Borghi. Non è un caso che la stessa proposta di riduzione delle tasse, nella formula della flat tax, non sia stata costruita e migliorata nel confronto con i corpi intermedi ma venga giocata in funzione esclusiva del conflitto con l’Europa. Lo stesso è avvenuto per i minibot: qualsiasi assemblea di imprenditori, di artigiani o di commercianti l’avrebbe bocciata all’unanimità ma Salvini ha lasciato che Borghi cantasse. Sarà colpa delle associazioni, troppo timide e troppo incoerenti, sarà colpa dell’opposizione, troppo ciarliera è tanto inconcludente, ma quell’ambiguità non è ancora esplosa. E noi ci troviamo dentro la tenaglia.