Un Paese non può essere governato disseminando odio e divisione. Non può crescere se dimentica e seppellisce la sua civiltà e la sua tradizione. Non basta alimentare il rancore verso gli immigrati e coltivare la vendetta sociale tra connazionali per risolvere i problemi. Quei problemi, semmai, vengono solo accantonati per ripresentarsi con maggiore virulenza.
Il discorso pronunciato l’altro ieri dal capo dello Stato segna, lungo queste direttrici, una vera e propria svolta. Costituisce un contro-programma istituzionale.
Se si volesse usare la medesima retorica giallo-verde, lo si potrebbe definire un “contro-contratto”. Che non tocca le linee guida dell’esecutivo, ma la natura stessa della nostra democrazia e le istanze coessenziali ad essa. Un modo per rimettere ordine in un Paese che mostra una crescente necessità di ricomporre i suoi obiettivi costituzionali e di riconnettersi al suo tessuto, sempre più eroso.
Il discorso di fine anno pronunciato l’altro ieri dal capo dello Stato non è allora solo uno strattone all’esecutivo, fissa un cambio di fase nei rapporti tra Quirinale e Governo. Un salto di qualità nelle modalità con cui Mattarella fino ad ora ha interpretato il suo ruolo. Il trasferimento delle critiche dal piano privato a quello pubblico.
La riservatezza lascia il posto all’ufficialità, la diplomazia viene sostituita dalla censura esplicita.
Fino ad ora aveva richiamato la squadra di Conte e la sua coalizione quasi sempre in modo ufficioso. Gli strappi compiuti dai grillo-leghisti impongono però una dimensione apertamente condivisa con i cittadini.
Le modalità con cui è stata prima elaborata, poi rivista e quindi approvata la Legge di Bilancio costituiscono infatti uno spartiacque definitivo. Le violazioni compiute negli ultimi tre mesi e il mancato rispetto dei suggerimenti forniti rappresentano un confine che il presidente della Repubblica non accetta che venga più superato.
Un limite che tocca in particolare il futuro e non solo le contraddizioni del recente passato. Cambia dunque la qualità delle relazioni tra il Colle e Palazzo Chigi. L’ordine del suo discorso si è infatti composto intorno alle deficienze e alle piccole e grandi eversioni compiute dal governo. Alle scelte effettuate e non effettuate da una compagine che negli ultimi quaranta giorni si è mossa guardando esclusivamente l’ombelico delle sue incapacità e senza alcun rispetto delle procedure costituzionali.
Basta quindi rileggere il primo passaggio del suo intervento, quello sui social media. Un modo per prendere le distanze e sottolineare la differenza del tradizionale augurio di fine anno rispetto ai messaggi su facebook preparati l’altro ieri da Salvini e da Grillo, e ieri da Di Maio e Di Battista. Il nucleo delle sue parole è una stilettata lanciata non solo contro molti dei provvedimenti adottati dall’esecutivo, ma contro il substrato aculturale che li ha accompagnati e prodotti. Non cita direttamente ministri e premier, è la sua unica clausola di salvaguardia. Ma, del resto, quasi non ne ha bisogno.
Ha così bocciato la retorica antimigranti spiegando che un Paese civile e democratico non può separare la solidarietà dalla sicurezza. Che la seconda può esistere solo se coesiste con la prima. Ha letteralmente disprezzato la tassa sulle organizzazioni non profit inserita nella manovra economica nella affannosa ricerca di fondi per finanziare il reddito di cittadinanza e la misura previdenziale, cosiddetta quota 100. Si allontana e soprattutto allontana dagli italiani l’idea che i provvedimenti dell’esecutivo possano essere davvero considerati la vittoria finale sulla povertà. Giudica una stortura anche solo la prospettiva di impiegare l’esercito per coprire le buche della strade di Roma, l’ultimo prodotto dell’arrogante inefficienza amministrativa della giunta Raggi.
Già domenica scorsa Mattarella aveva poi fatto sapere a Palazzo Chigi di non aver gradito l’approvazione della Legge di Bilancio a 24 ore dall’esercizio provvisorio. Un iter seguito con presunzione, inconsapevolezza e impreparazione. Non ha apprezzato il rischio corso, né di essere stato costretto a esaminare con incostituzionale velocità un provvedimento che risulta ancora sconosciuto nella sostanza e nei particolari. Ma soprattutto considera inaccettabile il trattamento riservato al Parlamento. Mai una legge fondamentale dello Stato è stata varata senza un vero esame da parte delle Camere, ridotte a meri passacarte. Senza un’analisi nelle commissioni e con un dibattito in aula privo di qualsiasi approfondimento. E non possono essere una giustificazione i rilievi dell’Ue emersi con larghissimo anticipo, il 5 ottobre scorso. Quel testo rimane per questo sotto osservazione anche per il futuro.
Così come l’intero governo rimane sotto l’osservazione del Quirinale.Perché il problema di questa maggioranza non è solo l’incapacità e l’ignoranza. Ma la capacità di trasformare questi deficit in demagogia e populismo giustificandoli con il corpo di una fittizia volontà popolare interpretata attraverso le chiavi della convenienza grillina o leghista. Prescindendo dai bisogni complessivi e duraturi del Paese. I poteri del presidente della Repubblica, fortunatamente, si espandono e si contraggono in base alle fasi politiche e alla qualità dei soggetti che esercitano pro tempore il potere. Esattamente come si allarga e si restringe la necessità di ricordare i confini della basilare convivenza civile.
Un compito e un linguaggio che ha riscosso l’attenzione degli italiani in tv e sui social. E che si trova costretto a fare i conti con il primitivo scontro tra saggezza e analfabetismo istituzionale.