Resta da capire, ora che la Banca centrale europea ha scelto il suo percorso di uscita, chi ne prenderà il posto. Non sarà una ritirata da poco, quella che inizierà a farsi sentire dal 2019. Per conto della Bce, ma assumendo il rischio sul proprio bilancio, da oltre tre anni la Banca d’Italia è il maggiore acquirente di uno dei prodotti finanziari più liquidi e abbondanti che esistano sui mercati mondiali: i titoli di Stato con i quali l’Italia finanzia il proprio debito pubblico da 2.300 miliardi.
Svolto su mandato della Bce, il ruolo della Banca d’Italia in questi anni è stato determinante nel generare e sostenere la domanda per quei bond. L’anno scorso l’istituto centrale ne ha comprati per 118 miliardi di euro, metà di quanto è servito al governo per coprire le proprie esigenze di finanziamento a medio o lungo termine e a rimborsare i creditori quando i loro titoli scadevano. L’obiettivo della Bce era dissipare la minaccia di una deflazione — una caduta generale dei prezzi — che avrebbe corroso la ripresa nell’area euro. Nel farlo, però, la Bce ha dovuto accettare che molti si abituassero a una situazione tutt’altro che normale. Secondo gli ultimi dati di Banca d’Italia, ad aprile l’istituto aveva il 16,3% di tutto il debito pubblico del Paese; una progressione enorme, perché ne aveva non più del 10% due anni prima e il 5% quattro anni fa. Per conto della Bce, l’istituto di via Nazionale è diventato il finanziatore ultimo dell’Italia, la rete di sicurezza, mentre i partiti cancellavano il prelievo sulla prima casa e promettevano tasse «piatte» o redditi di cittadinanza.
Nel frattempo, prevedibilmente, altri investitori si stavano ritirando. Ad aprile le banche del Paese avevano in bilancio debito italiano per 50 miliardi in meno dei 402 di un anno prima. E continueranno a uscire, perché i regolatori europei non vedono di buon occhio il legame siamese fra sistema privato del credito e debito pubblico. Non saranno le banche a sostituire la Bce dal 2019. Né saranno le assicurazioni, per motivi simili: nel complesso i gruppi finanziari pesano ormai per un quarto nella platea dei creditori dell’Italia, quando erano un terzo appena due anni fa. È improbabile anche che tornino a comprare direttamente le famiglie, che ormai detengono poco più del 5% del debito quando ne avevano il 16% sei anni fa.
Resta dunque per Giovanni Tria lo stesso dilemma di qualunque ministro dell’Economia prima di lui: chi è il compratore «marginale», quello in più; colei o colui che fa sì che la domanda di debito italiano copra bene l’offerta (ossia il bisogno di prestiti dello Stato) e dunque i rendimenti dei titoli non debbano esplodere per trovare creditori disposti. Perché è quel compratore marginale, quello in più, la mano che fa sì che l’Italia resti in equilibrio. Certo la mano della Bce (via Banca d’Italia) l’anno prossimo non sparirà, perché riacquisterà debito italiano con i proventi dei titoli che via via scadono: ma poiché fin qui sono stati comprati in gran parte a lunga scadenza, per ridurne i rendimenti, l’anno prossimo andrà rimborsato e riacquistato ben poco. Secondo Goldman Sachs appena 19 miliardi, la quota più bassa nell’area euro in proporzione ai finanziamenti a medio-lungo termine necessari al Paese.
Ciò lascia a Tria solo due opzioni, in cerca di quel compratore di debito «in più»: gli investitori esteri, specie i grandi fondi, già scesi dal 40% dei detentori di debito 8 anni fa al 32% di oggi; e i fondi comuni italiani, stabili poco sotto al 20%. Tria deve convincerli proprio mentre la maggioranza parla di smantellare parte della riforma pensioni e delle misure anti-evasione, di reddito minimo e della cosiddetta «flat tax». Non è una missione impossibile, specie se i rendimenti salgono e dunque con loro gli oneri sui contribuenti. Ma questi investitori spesso basano meccanicamente le loro scelte sui giudizi delle agenzie di rating, che declasserebbero l’Italia se facesse il passo più lungo della gamba. Dunque i margini sul deficit sono tutt’altro che vasti. E il ministro lo sa.